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Mosca, la bomba che potrebbe produrre un’eco

Il richiamo al complotto in cui fu ucciso Rasputin, a San Pietroburgo nel 1916, alla vigilia della rivoluzione bolscevica, è fin troppo facile. Ma certo la tentazione è forte. Alexandr Dugin – il guru del sovranismo del Cremlino, ufficiale di collegamento con i fascismi europei e teorico della rinascita di Mosca come “terza Roma”, bersaglio dell’attentato del 20 agosto, in cui è rimasta uccisa la figlia Darya – ha più di un tratto in comune con il magnetico monaco dei Romanov. Come sempre, la storia è prima tragedia e poi farsa. Dugin scimmiotta il suo modello della corte zarista nella foggia e negli atteggiamenti pacchianamente demoniaci. Il filo conduttore che lega i due eventi, comunque, ci porta alla crisi del regime russo.

L’attentato conferma che si sta sgretolando il muro di controllo e sicurezza che proteggeva i vertici di Mosca. Un logoramento che si avvicina sempre più al nuovo zar del Cremlino. Chiunque sia stato a volere e a realizzare quell’atto terrorista, certamente ha potuto contare su complicità e inerzie che hanno reso vulnerabile uno degli uomini più emblematici della nuova nomenklatura. A questo punto, a quasi sei mesi dall’avvio dell’operazione speciale, come Putin vuole che si definisca la guerra in campo aperto in corso in Ucraina, il quadro sembra davvero problematico per il suo regime. Fermi sul terreno di combattimento, esposti alle azioni di contrattacco che arrivano a colpire in pieno territorio russo, rimettendo in discussione persino il controllo sulla Crimea, i russi stanno misurando la profondità delle sanzioni che, dopo avere colpito direttamente i patrimoni degli oligarchi, ora stanno ridimensionando radicalmente il regime di vita della popolazione. L’inverno alle porte non aiuta certo.

La sinistra latinoamericana e la guerra in Ucraina

(Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2022) In un recente articolo apparso su “ciperchile.cl”, lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez – già vicepresidente del...

Historia magistra vitae?

(Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2022) Tucidide sosteneva che le cose del passato si ripetono nel futuro in modo simile, se non...

Putin alla riconquista di un impero

(Questo articolo è stato pubblicato l'8 marzo 2022) Potremmo definire la cosiddetta operazione militare speciale con cui Putin vuole cancellare l’Ucraina la più spietata strategia...

L’Europa nel gorgo dei nazionalismi

(Questo articolo è stato pubblicato il 3 marzo 2022) Non c’è dubbio che Putin stia conducendo una guerra di aggressione e che le sanzioni nei...

Chi sono i mercenari russi del gruppo Wagner

(Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2022) Uno dei film “storici” di James Bond si chiamava Dalla Russia con amore. Da Mosca...

Resistenza costituzionale per un’opposizione di governo

Abbiamo dinanzi elezioni che la sinistra non può vincere, ma può forse riuscire a perdere nel modo più indolore possibile, scomponendo le forze e mischiando bene le carte. Al voto del 25 settembre il centrosinistra si presenta pressoché nelle stesse condizioni del 2018, quando le forze di destra segnarono un indubbio risultato positivo, mitigato solo dall’eccezionale e irripetibile affermazione dei 5 Stelle, che comunque confluirono nel governo gialloverde con la Lega. Il Pd si trova dinanzi all’evidenza dell’inaccettabilità di un “campo largo”: sia per la divaricazione strategica, sia per la rottura fra le due forze che la caduta del governo Draghi ha comportato, e anche perché gli stessi grillini sembrano all’inizio di un processo centrifugo che sparpaglierà l’ex gruppo di maggioranza relativa lungo tutto l’arco politico.

Un’eventuale affermazione del partito di Letta, che contende alla Meloni la palma di prima formazione politica del Paese, non cambierebbe di molto il senso generale. Anzi, avrebbe il sapore beffardo di raccogliere voti che non potranno in alcun modo concorrere a una maggioranza di governo. Ammesso, infatti, che le forze del centrosinistra – Pd più cespugli vari che confluiranno nel “campo stretto” – possano arrivare al 25-28 %, persino con un exploit al 30, poco muterebbe circa il futuro inquilino di Palazzo Chigi.

Se la guerra diventa convivenza

Circa sessanta funzionari dei servizi di sicurezza ucraini sono rimasti nelle zone occupate dai russi. Solo la punta dell’iceberg di una realtà più complessa, in cui almeno seicento o settecento dipendenti di medio e alto livello dell’amministrazione di Kiev hanno deciso di non seguire le forze ucraine in ritirata. Più che di un tradimento, si tratta in molti casi di una semplice scelta di vita, da parte di famiglie che continuano ad abitare territori nei quali la convivenza con i russi non è certo un’eccezione. Ovviamente, dopo questi mesi di guerra, l’opzione di rimanere nelle aree occupate non può essere considerata, soprattutto da parte di dirigenti dei servizi di sicurezza, come una semplice decisione logistica. E infatti la conseguenza di queste scelte è che il presidente Zelensky ha fatto arrestare Ivan Bakanov, il capo dei servizi segreti ucraini, insieme con la procuratrice generale Iryna Venediktova, che paga anche per molti dei suoi collaboratori dell’amministrazione giudiziaria ancora residenti nelle regioni invase dalle truppe di Mosca.

Più che una guerra, quella in Ucraina sta diventando una convivenza combattuta. Da mesi, ormai, le due comunità – ucraina e russa – si trovano spalla a spalla nell’organizzare forme di condivisione del territorio. E questa promiscuità fra parenti – perché tali sono russi e ucraini – sta imbarazzando i vertici dei due Stati. Sono infatti davvero centinaia e centinaia i casi di cambio di fronte, o di semplice adattamento a una convivenza forzata.

La crisi energetica in Germania tra economia e politica

La pietra dello scandalo sarebbe una gigantesca turbina Siemens, a lungo rimasta in Canada per una complessa riparazione, ma necessaria, secondo i russi, per...

Biden in Medio Oriente: per fare cosa?

I numerosi esercizi di presentazione dell’ormai imminente viaggio di Joe Biden in Medio Oriente raramente tengono conto dell’ultima notizia che riguarda quel mondo. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a tempo ormai scaduto, non è riuscito a tenere in vita i corridoi umanitari che, per via terrestre, portano nell’estremo nord-ovest della Siria gli aiuti indispensabili alla sopravvivenza di 2,4 milioni di siriani, lì deportati dall’esercito siriano che non gradiva quella popolazione nelle aree riconquistate. La Russia ha opposto il veto, sostenendo – in piena coerenza con quanto prevede la Carta delle Nazioni Unite – che gli aiuti alle popolazioni stremate e bombardate nel nord della Siria devono passare dalla capitale siriana, Damasco, e non devono giungere via terra dai Paesi con quelle zone confinanti (Turchia e Iraq). Siccome la cooperazione internazionale e l’aiuto umanitario in sede Onu avvengono tra Stati, le regole dell’Onu – come sostiene giustamente Mosca – prevedono che chi sia deportato da un governo debba essere aiutato da chi lo deporta. È uno dei più evidenti paradossi di un sistema che non contempla le persecuzioni interne. La deroga, sin qui imposta dal pudore, sembra dunque finita.

Le stesse cronache danno analogamente poco risalto alla situazione determinatasi nei territori del nord-est della Siria, dove la famosa “coalizione anti-Isis”, guidata dagli Stati Uniti (visto che i russi, a quell’epoca, non avevano tempo da dedicare alla lotta contro l’Isis), sembra avere scaricato i curdi che avevano assunto il controllo di quei territori, con il sostegno della coalizione, a tutto vantaggio di Erdogan e della sua “operazione militare speciale” – mai chiamarla guerra! – tesa a creare una fascia di trenta chilometri sotto controllo turco. Lì, sostenuto dalle opposizioni laiche che lo sfidano in vista delle imminenti elezioni presidenziali, Erdogan intende deportare quanti più rifugiati siriani gli sia possibile, per alleggerire il peso che esercitano, più che sull’agonizzante economia turca, sulla sua opinione pubblica, ormai divenuta xenofoba per via del disastro che i mercanti di paure attribuiscono ai rifugiati, e non alla folle politica economica dello stesso Erdogan.