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Referendum sulla giustizia: un’operazione politica anti-giudici
La stagione referendaria proclamata dalla Lega si sta rivelando per quello che è: una operazione politica tesa ad assestare un duro colpo al sistema giudiziario, invero già ampiamente colpito da leggi e leggine, che hanno intaccato il carattere orizzontale dell’organizzazione della magistratura. La natura della chiamata alle urne, il prossimo 12 giugno, era chiara già dalle premesse: non sono state raccolte le firme per la presentazione dei quesiti, ma si è usata la scorciatoia di affidare l’iniziativa ai Consigli regionali dove la Lega è in maggioranza. La Costituzione chiede cinquecentomila firme o la maggioranza di cinque assemblee regionali: la strada scelta è ovviamente legittima – ma non si dica che è il popolo a invocare il voto.
E infatti ora la questione più scottante, per Matteo Salvini e i suoi fiancheggiatori – dai radicali a Italia viva, ai berluscones sempre assetati di sangue “togato” –, è come portare gli elettori alle urne per evitare una figuraccia. Intanto, viene sacrificata la “riforma” del Consiglio superiore della magistratura: la commissione Giustizia del Senato ha fissato al 23 maggio il termine per la presentazione degli emendamenti. Si allungano dunque i tempi, mentre Lega e Italia viva confermano l’intenzione di proporre modifiche al testo approvato dalla Camera, che dovrà affrontare una seconda lettura. Una novità non da poco: se si andrà oltre le elezioni per il rinnovo del Csm – previste in luglio, e che giustificavano l’urgenza di nuove regole –, il pacchetto potrebbe andare all’aria. Pare che lo slittamento sia stato preteso da Salvini come chance per evitare che i pochi elettori che andranno a votare non ci ripensino dopo l’approvazione definitiva della riforma, che potrebbe essere un naturale deterrente, anche se i quesiti non riguardano solo il Csm. Anzi.
Melillo alla procura nazionale antimafia
Torture in carcere, chiesto giudizio
Caso Assange, il lato oscuro dell’Occidente
La sentenza sulla strage di Bologna: è Bellini il quinto uomo
Anzitutto, i fatti. Il 2 agosto del 1980 una bomba esplode nella sala di attesa della stazione di Bologna, provocando ottantacinque morti e oltre duecento feriti. Vengono condannati come esecutori materiali Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, esponenti dei Nuclei armati rivoluzionari, una banda di terroristi che interpretano l’ordinovismo neofascista degli anni Ottanta. Una volta scoperta l’opera di depistaggio, vengono individuati come mandanti Licio Gelli, Francesco Pazienza, i capi dei servizi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Oltre a Paolo Bellini, condannato ieri all’ergastolo, nel 2021 è stato condannato, in primo grado, per complicità con gli esecutori Gilberto Cavallini, ex terrorista legato all’ordinovismo veneto. Spostata di un anno, al prossimo gennaio, la sentenza di secondo grado, senza un apparente motivo.
È una condanna in primo grado, quella di Bellini, ma di una forza dirompente: rompe la cortina di nebbia sulla strage di Bologna. Il 6 aprile 2022, il presidente della Corte di assise di Bologna, Francesco Caruso, ha letto la sentenza nei confronti di Bellini per aver preso parte all’azione terrorista e, con lui, per depistaggio, contro l’ex capitano dei carabinieri, Piergiorgio Segatel (sei anni), e contro Domenico Catracchia, amministratore del complesso immobiliare di via Gradoli, a Roma, sede di un covo dei Nar, per false dichiarazioni ai pm (quattro anni).