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Caso Omerovic: qualche ragionamento sui poliziotti di uno Stato democratico

Dal Viminale si fa sapere che è stata adottata la linea dura. Indagine interna rapida e trasparente, massima collaborazione con la magistratura: ci mancherebbe pure che si volesse eccepire qualche cavillo. Perché la storia si presenta proprio male. Quattro poliziotti in borghese – particolare non irrilevante –, tra loro una donna, lo scorso 25 luglio, entrano in casa del trentaseienne sordomuto Hasib Omerovic, accusato da voci di quartiere di molestare ragazzine; i quattro (in pratica un esercito) dicono che volevano chiedergli i documenti, ma non si limitano affatto a quello: cominciano a rovistare e lo picchiano con un bastone, poi lui vola giù dalla finestra. Viene soccorso da una volante e portato in autoambulanza all’ospedale Gemelli, dov’è tuttora in gravissime condizioni. Dopo un silenzio omertoso, fino alla denuncia dei genitori, nei primi giorni di agosto, bisogna spettare il 12 settembre perché la notizia diventi pubblica, dopo una conferenza stampa alla Camera del deputato radicale Riccardo Magi, dei familiari e di loro due legali, Arturo Salerni e Susanna Zorzi.

La ricostruzione di quei minuti è avvenuta sulla base della testimonianza della sorella di Hasib, disabile mentale, che ha comunque saputo ricostruire la scena svoltasi tutta in casa, lontano da telecamere. La procura sta valutando la posizione dei quattro, ipotesi di tentato omicidio, e di altrettanti colleghi intervenuti nella storiaccia, alcuni probabilmente solo per soccorrere l’uomo, per altri si profila il reato di falso.

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Meloni in doppiopetto (ovvero da Giorgio a Giorgia)

Nessun riferimento all’abbigliamento. Siamo quanto mai sul terreno politico: forse potrà sfuggire ai più giovani ­– ma gli altri dovrebbero ricordare il metodo usato, a suo tempo, da Giorgio Almirante per tentare di sdoganare il Movimento sociale, ricettacolo e “ombrello protettivo” (così disse Rauti) degli stragisti di Ordine nuovo. Si era nel 1972: allora i militanti del Movimento sociale, esplicitamente indicato da Meloni come il proprio punto di riferimento ideologico, tanto da conservare nel simbolo la fiamma tricolore – simbolo totalmente anticostituzionale –, andavano su e giù nelle piazze; e Ignazio La Russa, oggi consigliere esperto soprattutto in fatto di nomine, menava le mani che era un piacere. Nico Azzi, quello che si fece vedere in treno con “Lotta continua” sotto il braccio, prima di mettere a posto l’ordigno che gli scoppiò in mano, era un tesserato dell’Msi e via dicendo, si potrebbe proseguire a lungo. Ebbene, in quel contesto, Almirante si fece doppiogiochista, vestendo il “doppiopetto” di giorno, dunque perbenismo tutto sicurezza e tradizione, e continuando a gestire i camerati di notte. Era chiamata appunto la “politica del doppiopetto”.

Gli fruttò un botto elettorale che mise in crisi la Dc, cosa difficile allora; poi il successo calò, facendo rientrare nei ranghi l’Msi: gli spiegarono che c’era posto anche per loro ma non in quel modo, e anche la P2 fece la sua parte accogliendoli fraternamente nella propria casa. Giorgia Meloni non ha fatto che apprendere dal suo padrino politico: non rinuncia al simbolo, rivendica la sua origine, si tiene una classe dirigente spesso inquietante (troppe inchieste le sono cadute addosso), ma al tempo stesso ha cominciato a frequentare i salotti buoni, ed è arrivata piano piano sul palco di Rimini.

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Caso Cucchi: dalla Cassazione l’ultima parola

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Borsellino, la sentenza delle beffe

Non poteva che finire così. Non senza sarcasmo possiamo dire che, tanto lunga è stata l’attesa, da poter supporre che si volesse che andasse così: cioè che lo Stato scegliesse di non inchiodare se stesso, attraverso tre poliziotti, alle responsabilità del grande depistaggio dell’inchiesta su via D’Amelio. La sentenza è arrivata ieri, a una settimana dal trentesimo anniversario della strage nella quale furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Undici ore di camera di consiglio e il tribunale di Caltanissetta ha detto, in primo grado, che il depistaggio delle indagini sull’attentato ci fu, a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, ma il loro reato è prescritto per il venir meno dell'aggravante di mafia. Mentre esce assolto – per non aver commesso il fatto – Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell’inchiesta sugli attentati del 1992. Come sia caduta l’aggravante, lo spiegheranno le motivazioni che saranno – si può immaginare – un esercizio importante di retorica, dovendo spiegare che i due hanno ingarbugliato le indagini, hanno costretto, anche torturandolo, un delinquente comune a passarsi come uno stragista, non sapendo, tuttavia, che così stavano favorendo Cosa nostra. Una beffa, diremmo. Dunque, possiamo continuare a parlare di depistaggio nei nostri incontri pubblici, ma nessuno pagherà. 

Secondo la procura – rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso – gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, morto nel dicembre del 2002 portandosi via parecchi grandi segreti, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire, e ad accusare della strage persone poi scoperte innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne da loro montato, con la regia di La Barbera, ha di fatto aiutato i veri colpevoli, coprendo per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo, ai tre poliziotti, la procura aveva contestato l’aggravante di avere favorito Cosa nostra, oggi caduta.

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