Tag: Israele
La creazione di uno Stato palestinese sempre più lontana
In Israele il peggiore governo della sua storia
Israele, vittoria netta della destra estrema
Iran tra equilibri internazionali e sollevazione popolare
Che cosa succede a Teheran? Per tentare di rispondere a questa difficilissima domanda, non si può che partire da quanto è accaduto a Beirut, prima linea di tanti conflitti mediorientali, soprattutto di quello definito tra sunniti e sciiti, e in realtà tra iraniani e sauditi. Due opposte visioni egemoniche, che coinvolgono alleanze e scontri. Beirut, sotto il controllo di Hezbollah e degli alleati dell’Iran, ha trovato un accordo con Israele sullo sfruttamento dei giacimenti mediterranei di idrocarburi che riguardano entrambi i Paesi. Un confine terrestre riconosciuto tra i due Stati non appare pensabile da decenni, ma c’è ora quello marittimo. I lavori per sfruttare le grandi ricchezze recentemente scoperte possono cominciare. E Hezbollah, spina nel fianco di Israele in nome e per conto dell’Iran, è d’accordo. Basta provocazioni, ora si evitano attriti di terra per dare serenità alle trivellazioni bilaterali nel mare.
Per qualcuno è l’inizio di una libanesizzazione di Hezbollah. Il Libano è un Paese con l’acqua alla gola: si diffonde il colera, si muore di fame, nessuno sa più come vivere. Poteva quindi permettersi di non firmare un accordo che dà una prospettiva agognata da tutti, avere qualcosa da mangiare almeno una volta al giorno? Siccome però è difficile pensare che Hezbollah abbia detto di sì solo per questo, e non anche perché Teheran ha approvato la scelta, occorre capire i motivi del sì. Teheran non rinuncia alla sua propaganda, è normale; e annuncia al morente Libano il generoso invio di un dono in greggio. Il Paese è alla paralisi. Dunque una scelta di “amicizia” solidale. Tempistica interessante, ma fa capire che c’è dell’altro, ovviamente.
Netanyahu ancora al centro della campagna elettorale israeliana
Biden in Medio Oriente: per fare cosa?
I numerosi esercizi di presentazione dell’ormai imminente viaggio di Joe Biden in Medio Oriente raramente tengono conto dell’ultima notizia che riguarda quel mondo. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a tempo ormai scaduto, non è riuscito a tenere in vita i corridoi umanitari che, per via terrestre, portano nell’estremo nord-ovest della Siria gli aiuti indispensabili alla sopravvivenza di 2,4 milioni di siriani, lì deportati dall’esercito siriano che non gradiva quella popolazione nelle aree riconquistate. La Russia ha opposto il veto, sostenendo – in piena coerenza con quanto prevede la Carta delle Nazioni Unite – che gli aiuti alle popolazioni stremate e bombardate nel nord della Siria devono passare dalla capitale siriana, Damasco, e non devono giungere via terra dai Paesi con quelle zone confinanti (Turchia e Iraq). Siccome la cooperazione internazionale e l’aiuto umanitario in sede Onu avvengono tra Stati, le regole dell’Onu – come sostiene giustamente Mosca – prevedono che chi sia deportato da un governo debba essere aiutato da chi lo deporta. È uno dei più evidenti paradossi di un sistema che non contempla le persecuzioni interne. La deroga, sin qui imposta dal pudore, sembra dunque finita.
Le stesse cronache danno analogamente poco risalto alla situazione determinatasi nei territori del nord-est della Siria, dove la famosa “coalizione anti-Isis”, guidata dagli Stati Uniti (visto che i russi, a quell’epoca, non avevano tempo da dedicare alla lotta contro l’Isis), sembra avere scaricato i curdi che avevano assunto il controllo di quei territori, con il sostegno della coalizione, a tutto vantaggio di Erdogan e della sua “operazione militare speciale” – mai chiamarla guerra! – tesa a creare una fascia di trenta chilometri sotto controllo turco. Lì, sostenuto dalle opposizioni laiche che lo sfidano in vista delle imminenti elezioni presidenziali, Erdogan intende deportare quanti più rifugiati siriani gli sia possibile, per alleggerire il peso che esercitano, più che sull’agonizzante economia turca, sulla sua opinione pubblica, ormai divenuta xenofoba per via del disastro che i mercanti di paure attribuiscono ai rifugiati, e non alla folle politica economica dello stesso Erdogan.
Funerali di Shireen: sempre più urgente “due popoli, due Stati”
Non conosce la parola fine la sanguinosa violazione dei diritti umani, da parte di Israele, contro il popolo palestinese. Le immagini della uccisione di Shireen Abu Akleh – la giornalista di Al Jazeera colpita a morte dai militari israeliani mercoledì 11 maggio a Jenin, mentre seguiva un’incursione dell’esercito – e quelle della successiva profanazione dei funerali della reporter, che ha addirittura messo a rischio la stabilità della bara, hanno fatto il giro del mondo e suscitato un’indignazione generale, come pure una scontata, quanto ipocrita, condanna da parte della “comunità internazionale”. Una cerimonia cattolica, per dare un ultimo saluto a una donna coraggiosa, violentata dalle cariche della polizia israeliana.
Questo crimine si inserisce in un contesto più ampio, che genera grande preoccupazione, anche e soprattutto perché non sembra interessare nessuno dei “grandi della terra”. “L’uccisione di Shireen Abu Akleh – denuncia con forza Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord – è un sanguinoso monito del sistema mortale con cui Israele circonda i palestinesi, che vengono impunemente uccisi ovunque. Quanti altri di loro – accusa Higazi – dovranno essere uccisi prima che la comunità internazionale chiami Israele a rispondere di questi continui crimini contro l’umanità?”