Il furore omicida e terroristico, che sta caratterizzando la politica del governo israeliano presieduto da Benjamin Netanyahu, gli ha fatto perdere di vista le differenze presenti all’interno dei suoi acerrimi avversari. Così, dopo avere reagito legittimamente ma in maniera assolutamente sproporzionata (modalità del resto non nuova per lo Stato ebraico) alla strage del 7 ottobre 2023, ora l’uccisione di Hassan Nasrallah, leader indiscusso di Hezbollah – principale partito libanese che ha cominciato ad affermarsi nella seconda fase della guerra civile (1975-1982) – considerato un elemento di moderazione e di pragmatismo all’interno del cosiddetto Partito di Dio, dimostra che la linea di Tel Aviv, promossa in particolare dai due ministri diestrema destra, Bezalel Smotrich alle Finanze e Itamar Ben-Gvir alla Sicurezza nazionale, è priva di qualsiasi strategia politica.
Nato nel 1960 – in una famiglia numerosa, nove fratelli – a Burj Hammud, un sobborgo povero del nord di Beirut, Nasrallah, divenuto con il tempo leader carismatico degli sciiti libanesi, è vissuto e cresciuto politicamente, a partire dal 1982, a soli tre anni dalla rivoluzione iraniana del 1979, con il mito dell’ayatollah Khomeini e dei guardiani della rivoluzione. Egli era inoltre molto legato alla guida suprema iraniana attuale, Ali Khamenei, in un contesto caratterizzato da una lunga tradizione di aiuti militari da parte di Teheran al movimento libanese. La sua uccisione ha fatto seguito – dopo molti anni, era il 1997 – a quella di suo figlio Hadi, assassinato anche lui dagli israeliani nel sud del Paese.
Comandante militare di Hezbollah, Nasrallah prende il posto, nel febbraio del 1992, dello sceicco Abbas al-Mussawi, rimasto in carica per soli nove mesi prima di essere eliminato dagli israeliani, il 16 febbraio 1992, poco dopo la commemorazione di un altro leader ucciso, lo sceicco Ragheb Harb, come lui tra i fondatori di Hezbollah. Prima di entrare nella politica attiva, Nasrallah aveva studiato politica e Corano in un seminario della città santa sciita di Najaf, in Iraq, dalla quale però era stato espulso nel 1978, quando il governo a maggioranza sunnita represse gli attivisti sciiti. Fa la sua prima esperienza militare con Amal (“Speranza”), “Movimento dei diseredati”, fondato dall’imam sciita Musa al-Sadr, una delle milizie più importanti durante la guerra civile libanese.
Raggiunta la leadership di Hezbollah, arrivava al massimo della popolarità quando, nel 2000, costringeva le truppe israeliane al ritiro dal Libano meridionale, ponendo così fine a ventidue anni di occupazione lungo il territorio di confine. E successivamente, nel 2006, grazie al raggiungimento di un cessate il fuoco tra il gruppo armato libanese e Tel Aviv, mediato dalle Nazioni Unite, dopo trentaquattro giorni di guerra. È stato grazie a Nasrallah che la formazione sciita è diventata un vero partito, sempre più lontano dal profilo terroristico che la maggioranza dei media gli attribuisce e sempre più vicino a quello di una forza politica militarizzata per poter fronteggiare Israele.
Un po’ come Hamas, Hezbollah, sotto la sua guida, ha guadagnato consensi anche con la costruzione di uno Stato sociale, con infrastrutture scolastiche e sanitarie che lo Stato centrale, di fatto inesistente, non riesce a garantire. Naturalmente, nel Paese dei cedri non tutti – a partire dalla variegata galassia liberale e nazionalista anche sunnita – amano un partito integralista e teocratico, fotocopia del regime iraniano, e dunque non sono mancati i festeggiamenti dopo la notizia dell’uccisione del leader sciita.
A proposito di fotocopie, il successore di Nasrallah ha, sia pure con meno prestigio, un profilo politico molto simile. Si tratta di Hashim Safi Al Din, nominato dal Consiglio della Shura, di quattro anni più giovane di Nasrallah, con lui imparentato – sono cugini – che avrà il compito arduo di ricompattare le file dell’organizzazione, mai come ora indebolita dalla furia del peggiore governo della storia di Israele. Difficile, comunque, che possa ammorbidire la linea dopo quello che è successo. In questi casi, al contrario, chi prende il posto di un leader ucciso fa prevalere la rabbia e il tentativo di riscatto, a maggior ragione se Israele dovesse osare l’attacco di terra, dove la guerriglia islamista ha più carte da giocare.
Detto questo, l’unica cosa sicura, per ora, riguarda il futuro di quell’area geografica, che uscirà da questo conflitto ancora più incerta di prima e senza alcun progetto. L’estremo indebolimento di Hamas e Hezbollah, ma non la loro scomparsa pressoché impossibile, e le difficoltà dell’Iran del riformista Masoud Pezeshkian nel rispondere, vista anche l’inferiorità militare nei riguardi di un Paese con il coltello fra i denti, renderanno per un periodo la vita più facile a un Netanyahu ben lontano – ostaggi permettendo – dal ritirarsi dalla politica. Il problema è ancora una volta il futuro. Ma se questo non interessa affatto alla leadership con la stella di David, non sembra preoccupare più di tanto neanche il resto del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Con buona pace delle decine di migliaia di morti che stanno insanguinando le strade di Gaza e di Beirut.