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Secondo compleanno per “terzogiornale”
Entriamo oggi, primo febbraio 2023, nel terzo anno di vita della nostra impresa online. Abbiamo cercato di praticare un giornalismo “selettivo” e “riflessivo”. Occuparsi dei fatti, certo, visto che il giornalismo ruota intorno a ciò che accade. Ma se per qualsiasi giornale la selezione è caratterizzante, in modo particolare lo è per il nostro, che intende mettere in questione gli stessi fatti presi in considerazione. Per questo ci siamo sforzati di allargare il più possibile l’orizzonte, pur nel nostro piccolo, guardando a quello che sta succedendo nei Paesi che vengono in genere relegati alle rubriche “esteri”, o le cui notizie vanno cercate sui grandi siti giornalistici mondiali. Abbiamo prestato molta attenzione alla scena internazionale, soprattutto alla sua parte apparentemente periferica, come l'America latina. Anche sulla guerra, che ha funestato il 2022 e dura tuttora, abbiamo avuto un approccio di scavo tra le notizie. Gli eventi che stiamo vivendo cambiano la storia: l’invasione russa dell’Ucraina, e prima l’esplosione della pandemia, hanno scombussolato gli equilibri interni ed esterni all’Occidente, modificando paradigmi che sembravano consolidati – come indica, del resto, il fenomeno internazionale delle nuove destre radicali che mirano a sconvolgere le istituzioni democratiche.
La domanda che spesso ci siamo posti è questa: è più decisivo il dito che indica – anch’esso, in ogni caso, dell’ordine dei fatti – o la cosa indicata? Se puntiamo il dito, per esempio, contro l’esistenza di una maggioranza di destra nel nostro parlamento, imputiamo al tempo stesso, per una parte cospicua, alla insipienza degli “altri” questo risultato. Così, dopo la mancata presentazione di un’alleanza competitiva con le destre alle elezioni del settembre scorso, la nostra lente si è concentrata soprattutto sulla parte a noi più vicina: quella in cui si collocano coloro che pure avevano suonato un campanello di allarme alla vigilia della consultazione, e non hanno saputo poi mettere in campo una proposta elettorale minimamente credibile. È insomma l’assenza di una sinistra politica il dato centrale della situazione italiana odierna, di cui la maggioranza parlamentare di destra, che esprime oggi il governo, è una conseguenza – sebbene quest’assenza sia certo anche il frutto di cambiamenti sociali profondi, che la sinistra non ha saputo cogliere.
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È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.
Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.