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La maternità surrogata e il mondo progressista italiano
Governo Meloni: pronti al peggio che viene
Congresso Cgil, il giorno dopo
“Il mondo del lavoro vive una situazione molto difficile perché si è poveri anche lavorando”. Lo ha ripetuto il leader della Cgil, Maurizio Landini, a “Mezz’ora in più”, il programma televisivo di Lucia Annunziata, aggiungendo che tra le priorità del sindacato ci sono l’aumento dei salari e il superamento della precarietà. Rieletto quasi all’unanimità dal XIX Congresso della Cgil, che si è chiuso a Rimini sabato 18 marzo, il segretario generale ora ha quattro anni (il suo secondo mandato) per condurre in porto gli obiettivi programmatici già annunciati nel discorso di investitura della sua prima elezione, nel 2019, e confermati nella Conferenza di organizzazione.
Il compito di Landini non è facile perché la Cgil continua ad avere un doppio problema: riconquistare un ruolo politico da protagonista nella interlocuzione con i governi e il parlamento, dopo l’isolamento e la svalorizzazione progressiva degli ultimi anni e – secondo problema (ma forse è perfino il primo) – cambiare la sua organizzazione interna basata ancora sul modello fordista di produzione. Ci sono infatti milioni di lavoratori che attendono il rinnovo del contratto nazionale; ma ce ne sono altrettanti che di contratti non ne hanno mai visto neppure l’ombra. E molti di questi hanno a che fare con le misteriose e incombenti piattaforme digitali e con lo spettro degli algoritmi. Tra tutte queste nuove figure – che si mescolano a profili antichi – ci sono migliaia di giovani che hanno confessato (anche sul palco di Rimini e in una inchiesta condotta dalla Fondazione Di Vittorio) di non aver mai incontrato il sindacato sulla loro strada.
Fisco, rivolta più che “rivoluzione”
Migranti, l’odissea senza fine
Sono ormai vent’anni e passa che si è aperto il fronte sud dell’immigrazione. Dopo l’Albania, le rotte balcaniche via terra, la Turchia e la Grecia, la Libia è diventata il maggior punto di partenza dei migranti arrivati dal Corno d’Africa, attraverso la frontiera di Kufra, ai confini tra l’Egitto e il Sudan. E, dall’altra parte, attraverso il Niger. Un ventennio durante il quale ci siamo ostinati a gestire l’emergenza migratoria soltanto in chiave di ordine pubblico. Se si dovesse fare una statistica dei ministri di Roma, in missione a Tripoli, troveremmo al primo posto i ministri dell’Interno, solo dopo i presidenti del Consiglio. Ci sono stati ministri degli Esteri che mai hanno toccato il suolo tripolitano (se non andiamo errati, Gianfranco Fini, quando era alla Farnesina, non andò mai in visita ufficiale in Libia). Ciò non vuol dire che poi i rapporti tra i due Paesi non furono stretti, tanto che vivemmo una stagione feconda di collaborazione fino alla firma del Trattato di amicizia tra i due popoli – unico caso di un Paese europeo con la Libia – sottoscritto dai parlamenti dei due Paesi.
Ora, sostenere che la Russia di Putin – attraverso la società Wagner, che si occupa di mercenari ed è un esercito privato – favorisca la partenza di migranti per mettere in difficoltà l’Italia è una grande bufala. Che già ci toccò sentire agli inizi di questo millennio, quando il fiume carsico dei flussi migratori, dopo la chiusura delle frontiere di Ceuta e Melilla (ingressi in Europa attraverso le due città spagnole in Marocco), trovò il suo sbocco in Libia. Allora l’Occidente – l’Italia in particolare – accusò il colonnello Gheddafi di usare l’arma del ricatto dei migranti per ottenere, in cambio, la cessazione dell’embargo che aveva messo in crisi la Libia. Embargo che cessò, nel 2003, quando il regime libico annunciò la fine della produzione di armi chimiche, e fece entrare gli ispettori internazionali a controllare i diversi siti di stoccaggio per la loro distruzione.
“Liberiamoci dal fossile”: l’11 marzo manifestazione a Piombino
Quel caicco fantasma
Passerella governativa a Cutro
I 5 Stelle e l’effetto Schlein
Stragi contro cui ribellarsi
Quei sessanta corpi senza vita sulla battigia di Cutro (altre decine sono i dispersi) raccontano della impotenza e della cattiveria umana. In questi momenti scorrono immagini terribili nella memoria. Come quelle del corpicino di un bimbo siriano, di origine curda, affogato nel naufragio di un barcone nel mare greco, nell’agosto del 2015. O i quasi quattrocento uomini e donne che non ce l’hanno fatta, galleggiando a pochi metri da una spiaggia di Lampedusa, ormai quasi dieci anni fa. O i cento albanesi speronati da una nave militare italiana nei giorni della Pasqua del 1997, mentre a bordo di una motovedetta albanese cercavano di arrivare a Brindisi (era l’Italia del centrosinistra che faceva il blocco navale, per impedire l’“invasione” albanese).
Questi corpi senza vita raccontano del Mediterraneo come di un gigantesco cimitero, e li abbiamo sulla coscienza tutti (dall’Unione europea all’Italia). Anche noi, che oggi ci indigniamo, che non abbiamo ormai più voce per protestare, per prendere le distanze dalla barbarie umana. Sì, dovremmo indignarci, scendere in piazza, impedire che si ripetano le stragi di innocenti. Non fare nulla ci fa essere complici.