La manovra Meloni senza futuro
Fino a qualche anno fa si parlava del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) come di un ente inutile, da chiudere per risparmiare soldi ed eliminare funzioni costituzionali considerate ormai irrilevanti, come il monitoraggio della contrattazione sindacale. Questo succedeva ai tempi della cosiddetta egemonia della sinistra. Ora, con la destra al governo, si premiano invece i fedelissimi. Uno di questi è Renato Brunetta, l’uomo che si era distinto con i governi berlusconiani nella lotta agli sprechi e alla bassa produttività dei dipendenti pubblici (vi ricordate i tornelli?). Ebbene, l’uomo dell’etica pubblica, il fustigatore dei costumi, il Robin Hood dei conti statali, ora si è aumentato lo stipendio da 250mila a 310mila euro all’anno. E con lui quello di tutti i dirigenti, facendo raddoppiare la spesa per le retribuzioni del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Uno stipendio così val bene una messa, si potrebbe dire, ricordando la sponda che lo stesso Brunetta ha fatto alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella battaglia contro il salario minimo di nove euro lordi l’ora.
Ma non è di questo che vogliamo parlare. Ci interessa piuttosto mettere in evidenza un dato molto grave delle scelte di politica economica del governo Meloni: la totale assenza di una visione di futuro e l’incapacità di proporre soluzioni a quella che potrebbe diventare presto una nuova pesante crisi economica. La propaganda di un Paese in ottime condizioni, con i conti pubblici a posto (o in via di guarigione), con un mercato del lavoro in crescita e con le aziende floride, nonostante la mannaia dei tassi di Trump, si sta sciogliendo come neve al sole. Basta andarsi a rileggere le audizioni parlamentari per la manovra economica 2026. Tutte le maggiori organizzazioni industriali, finanziarie e sindacali – insieme all’Istat, l’istituto nazionale di statistica che ultimamente pare si voglia smarcare dal ruolo di cassa di risonanza di palazzo Chigi – sono insoddisfatte, con livelli diversi di approccio critico. Perfino la Cisl questa volta ha dovuto dire “qualcosa”, e ha parlato della manovra più piccola dal 2014, invocando maggiori risorse (che non ci sono perché destinate al riarmo) per la sanità e la previdenza. In difficoltà anche la Uil che sta manovrando, in questo periodo, per staccarsi dalla Cgil giudicata ormai troppo movimentista. E corso d’Italia conferma, infatti, tutte le sue critiche alle scelte del governo Meloni. In audizione la Cgil ha parlato di una manovra “inadeguata, ingiusta e controproducente”. Per la confederazione guidata da Maurizio Landini siamo di fronte al binomio perfetto tra austerità e riarmo.
Complicità made in Italy
C’è una distanza comoda tra chi produce un’arma e chi la usa. Che è ben raccontata nella scena finale del film del 1974 Finché c’è guerra c’è speranza di Alberto Sordi, in cui il protagonista, mercante d’armi, evidenzia la complicità tra chi, come la sua famiglia, gode dei benefici di quel sistema e la devastazione della guerra. Lontano dagli occhi, però, non è lontano dal cuore. Oggi, mentre il Sudan è devastato da una guerra civile che ha già provocato oltre centocinquantamila morti e nove milioni di sfollati (ne ha parlato qui Luciano Ardesi), l’Italia continua a esportare sistemi d’arma verso Paesi che alimentano quella guerra.
New York non è gli Stati Uniti
Quello di martedì scorso è stato un test elettorale importante per gli Stati Uniti in vista delle elezioni per il Congresso, che si terranno tra un anno. Sono stati chiamati alle urne, a vario titolo (elezioni comunali, elezioni per alcuni governatori, proposte di legge di iniziativa popolare, elezioni di giudici), oltre cento milioni di residenti in almeno quattordici Stati del Nord, dell’Est, del Sud, dell’Ovest, del Midwest. Alcuni di questi sono i più popolosi del Paese, con decine di milioni di abitanti ciascuno: la California, New York, il Texas, la Florida. Com’è andata? Senza mezzi termini, è stato per i democratici un successo di vaste proporzioni, che consente loro di tirare un sospiro di sollievo dopo dieci mesi di montagne russe trumpiane, in cui, a parte alcune manifestazioni di protesta significative, si sono visti relegati, almeno all’apparenza, nell’irrilevanza dal protagonismo martellante del presidente.
Arresti e scandali in Israele
Quando l’esercito israeliano ha avviato l’invasione terrestre di Gaza, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, migliaia di palestinesi sono stati catturati. I soldati li hanno caricati sui camion militari, con gli occhi bendati, le mani legate, spesso seminudi e feriti. Tra loro, c’erano uomini di ogni età e condizione, ma anche donne: vedove trascinate via dai propri figli, costretti poi a sopravvivere tra le macerie e la miseria delle strade bombardate. È il caso di Abeer Ghaban, deportata perché il nome del marito morto coincideva con quello di un presunto combattente di Hamas.
















