Delitto di fine stagione
L’orrore ha i suoi poteri. La vicenda di Viareggio, che ha visto una nota imprenditrice balneare della zona massacrare un ladruncolo, ha un suo perverso magnetismo, come rivela l’attenzione morbosa che ha suscitato nei social media. Ma che cosa ci dice questa storia spaventosa che sa di B movie ultraviolento? Da una parte abbiamo una figura negli ultimi decenni santificata: l’Imprenditore, dall’altra un sotto-uomo, un migrante senza fissa dimora, pregiudicato per piccoli reati, una creatura interstiziale, una “vita di scarto” come diceva Zygmunt Bauman. Si affrontano, nel filmaccio, i due estremi della scala sociale. La preziosa borsetta della donna rubata dal disgraziato simboleggia l’esaltazione di una proprietà privata che diviene assoluta, un valore indiscutibile, una sorta di estensione della propria persona.
Nella società degli oggetti e della esibizione di marchi e griffe, la sottrazione di un oggetto ritenuto importante ha il valore di una perdita intollerabile. Per contro, la vita del sotto-uomo schiacciato ripetutamente contro il muro come un insetto, con furia implacabile, vale meno della borsetta e del suo contenuto. Che poi sui social media si scateni una canea a favore della donna, è segno dei tempi, e in particolare del clima attuale nel Paese. Aleggia una paura, un senso di vulnerabilità che attraversa in particolare gli strati abbienti, le vecchie famiglie potenti, i rentiers (tra cui appunto molti balneari), i pochi che continuano ad arricchirsi in una Italia in cui la povertà sta raggiungendo ormai dimensioni macroscopiche.
Una sinistra fra padre e figlia
Marco Revelli, nella sua lunga storia di intellettuale e documentatore delle vicissitudini della sinistra italiana, ha sempre avuto un’aura di pacata affabilità, anche nelle contrapposizioni più roventi. Una lucida dolcezza, quella che caratterizza il suo sguardo, che si incrocia nei passaggi più complessi di quella particolare famiglia politica che è specificamente la sinistra torinese. La culla dei grandi partiti operai, sulla scia della grande fabbrica automobilistica, ha indotto – da Gramsci a Gobetti, da Bobbio a Foa, e ancora da Novelli a Bertinotti – una società intellettuale potentemente immersa nei processi di trasformazione socio-industriale.
Cosa c’è e cosa manca nell’agenda Draghi
Del Rapporto Draghi sulla competitività in Europa si è parlato molto sui media e si moltiplicano i giudizi politici generali, ma dei contenuti si è discusso ancora poco. Per non rimanere anche noi sulla superficie, abbiamo intenzione di approfondire le questioni principali e valutare le soluzioni proposte. Abbiamo già iniziato a farlo con un editoriale di Michele Mezza sugli aspetti relativi alla tecnologia e in particolare all’intelligenza artificiale (vedi qui). Oggi proponiamo questa intervista all’economista Maurizio Franzini, professore emerito di Politica economica presso “La Sapienza” di Roma, che è stato anche presidente facente funzioni dell’Istat, tra l’agosto del 2018 e il febbraio 2019.
I social network e la scuola
Sorprende non poco leggere la petizione lanciata da Daniele Novara, uno dei più influenti pedagogisti italiani, e dal Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti da lui fondato, per chiedere che si vieti fino ai quattordici anni l’uso di uno smartphone personale e fino ai sedici la possibilità di creare un profilo sui social network; e non meno sorprende trovare tra i firmatari persone stimabili, come Federica Lucchesini o Anna Oliverio Ferraris (il testo della petizione si può leggere qui). Poiché si tratta di una petizione promossa e firmata da pedagogisti (anche se non mancano personalità del mondo dello spettacolo, che evidentemente hanno poca competenza sul tema, ma sono mediaticamente più efficaci di qualunque pedagogista), non si può fare a meno di notare due cose.