Caso Regeni a una svolta?
D’accordo, c’è motivo di soddisfazione per il pronunciamento della Corte costituzionale: il processo agli aguzzini che sequestrarono, torturarono e uccisero Giulio Regeni adesso potrà andare avanti, anche se Il Cairo non collabora affatto, e gli imputati non hanno ricevuto neppure un avviso, essendo rimasto sconosciuto il loro indirizzo. Ma bisogna pur dire che si tratta più di un conforto per la famiglia del ricercatore e per il movimento di opinione che l’ha sostenuta durante questi difficili anni, che di una concreta possibilità di fare giustizia. Quand’anche gli esecutori del misfatto siano condannati – e tutto lascia pensare che lo saranno –, è da escludere un’estradizione da parte dell’Egitto. Si tocca qui con mano che cosa significhi una politica dei diritti umani che va a cozzare contro il realismo politico dei governi. È certo che l’Italia abbia fatto poco per affrontare il caso: ci fu, quasi all’inizio, un richiamo dell’ambasciatore a Roma, ma quando si trattò di arrivare a rompere le relazioni diplomatiche con il Paese nordafricano, ci si tirò indietro. Nel frattempo sono andati avanti tutti i contratti, tra l’altro per la fornitura di armi, che in buona sostanza non hanno fatto altro che legittimare il regime repressivo di al-Sisi.
Si poteva agire diversamente? Sì e no. Qualcosa di più i diversi governi italiani, succedutisi in questi anni, avrebbero potuto fare; ma, a dire il vero, sarebbe oggi impensabile, nel quadro geopolitico complessivo, una rottura con l’Egitto. Questo Paese, per pessimo che sia (il caso Regeni, lo sappiamo, non è affatto un episodio isolato: c’è una quantità di desaparecidos egiziani e di oppositori che languono in galera da anni, com’è capitato a Zaki), è strategicamente molto ben collocato nel sistema di alleanze occidentali in quella parte del mondo. Se la grande sollevazione di massa, da cui l’Egitto fu scosso nel 2011, avesse avuto successo, sarebbe tutto diverso. Ma, con la piena restaurazione del potere militare, si è rimasti ai tempi di Mubarak.
“Insufficiente”. Stellantis licenzia a Mirafiori
La notizia l’ha data la Fiom di Torino. Lunedì 25 settembre è stato notificato il licenziamento a un lavoratore di Stellantis, inquadrato come impiegato nello stabilimento di Mirafiori, con l’imputazione di “aver fornito una prestazione giudicata dai suoi referenti gerarchici come insufficiente e inadeguata”. “Egregio Signore, negli ultimi anni il Suo diligente impegno ha fornito una prestazione giudicata dai Suoi referenti gerarchici come insufficiente e inadeguata. Pertanto provvediamo con la presente a irrogarLe il licenziamento con preavviso”. Ovviamente la notizia ha fatto subito il giro dello stabilimento, quello che fu un sito mitico della storia industriale e sindacale italiana ai tempi della Fiat. E ha varcato anche i cancelli, davanti ai quali sono state organizzate centinaia di manifestazioni, scioperi, picchetti con la presenza – a volte – di politici importanti, com’era stato per esempio nel caso del comizio di Enrico Berlinguer, il 26 settembre del 1980. Il caso dell’impiegato licenziato ha fatto rumore, anche perché è stato accompagnato da un’altra serie di provvedimenti disciplinari, tutti rivolti ai colletti bianchi. Si parla di almeno sei casi, con relativa sospensione dal lavoro.
Meloni ci ripensa, banche in festa
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Fininvest, e il Verbo era Marina (Berlusconi). D’accordo, si scherza, si esagera un po’: ma nella vicenda della contesa interna alla maggioranza di destra-centro sulla tassazione degli extraprofitti delle banche la voce dell’erede principale della dinastia di Arcore ha pesato eccome. La presidente di Fininvest lo ha fatto sapere sia per le vie brevi ai suoi interlocutori di governo, sia pubblicamente, ammettendo con i giornalisti di avere “grandi perplessità” sulla norma contenuta nel cosiddetto decreto Asset: perplessità, peraltro, “sia sul metodo, sia sul merito”. Non è necessario ricordare la presenza della famiglia Berlusconi nella galassia bancaria (in particolare nell’azionariato di Mediolanum) per spiegare la sua partecipazione non troppo astratta alla discussione pubblica sulla norma.
Grecia, a sinistra la fantasia al potere
Che un uomo come Stefanos Kasselakis potesse diventare presidente di Syriza, il principale partito di sinistra in Grecia, era un’ipotesi frutto solo dell’immaginazione di qualche sognatore. Eppure così è stato. A sostituire Alexis Tsipras – il premier che, forte dei grandi consensi alle elezioni del 2015, quando superò il 35% dei voti, osò sfidare la troika (Bce, Ce ed Fmi) – sarà un giovane di 35 anni, ricco, nato in uno dei quartieri bene di Atene, figlio di un armatore, trasferitosi a 14 anni negli Stati Uniti, in Massachusetts, dove ha frequentato l’università della Pennsylvania, non l’ultima arrivata tra gli atenei statunitensi, laureandosi in Finanza e Relazioni internazionali. Curriculum che gli ha consentito nel 2008 di impegnarsi nello staff di Biden, poi nominato vicepresidente da Barack Obama, ma soprattutto di lavorare a soli 21 anni per Goldman Sachs, una banca che si occupa principalmente di investimenti bancari e azionari, e di altri servizi finanziari con sede principale a New York. Una realtà capace di condizionare gli equilibri economici mondiali. Contemporaneamente, iniziò a investire nel settore delle spedizioni.


