Egemonia? Riparliamone
Potrà sembrare presuntuoso dichiarare che c’è una intenzione egemonica, da parte nostra, nel modo in cui facciamo “terzogiornale” e proponiamo i nostri articoli. Ma questa impressione si dissolve se pensiamo a che cosa propriamente debba intendersi con il termine “egemonia”, così come introdotto da Gramsci nel lessico teorico-politico.
Quello di egemonia è un concetto che nasce da una riflessione sul pensiero di Machiavelli, in particolare dall’idea che il potere presenti sempre due volti, quello del “leone” (o “lione”) e quello della “volpe” (o “golpe”). Il primo è il momento della forza, il secondo quello dell’astuzia. Ora, adattando questa terminologia al suo tempo, Gramsci, pur tenendo fermo l’aspetto della forza, sottolinea quello dell’astuzia – il famoso “machiavellismo” –, trasformandolo però in un discorso sul consenso. In altre parole, il potere politico non può appoggiarsi solamente sulla violenza (nel caso, a volercela vedere, c’è una critica della piega che la rivoluzione russa stava prendendo con lo stalinismo, e in realtà già prima) ma deve cercare l’adesione delle masse popolari. In sostanza, quello di egemonia è un principio che si pone in un rapporto di continuità e di rottura con quello, molto sbrigativamente enunciato da Marx stesso, di “dittatura del proletariato”, la quale, com’è noto, avrebbe dovuto avere una durata relativamente breve, e fu invece eternizzata dal potere sovietico (tra l’altro diventando una “dittatura sul proletariato”, come avrebbe detto Rosa Luxemburg – ma questo è un altro discorso).
Ebrei, c’è chi dice no
Da quando, prendendo a pretesto la strage del 7 ottobre 2023 a opera di Hamas, il governo israeliano di Netanyahu ha sterminato a Gaza decine di migliaia di palestinesi, lo scontro all’interno del mondo ebraico, a livello sia internazionale sia nazionale, si è fatto sempre più acceso. In Italia, ai diversi appelli di ebrei ed ebree per la pace, e di condanna del massacro in atto, le diverse comunità, in particolare quella romana, hanno reagito con toni sprezzanti e volgari, come nel caso dell’ex portavoce, Riccardo Pacifici, che ci ha tenuto a comunicare quale uso “improprio” avrebbe fatto di uno di questi documenti: quello firmato, alla fine di febbraio, da oltre duecento ebrei – tra i quali Renata Colorni, Roberto Della Seta, Donatella Di Cesare, Anna Foa, Gad Lerner, Stefano Levi Della Torre, Roberto Saviano –, stigmatizzato anche dal figlio di Liliana Segre, che definì quell’iniziativa “orribile nel giorno dei funerali dei fratellini Bibas”, strumentalizzando di fatto la tragedia dei due ostaggi per i propri fini politici. Un’altra iniziativa, ispirata a un appello analogo, è quella ospitata dal “New York Times”, promossa da appartenenti al mondo ebraico statunitense, tra cui trecentocinquanta rabbini.
Un conclave di civiltà
La tentazione è troppo forte per ignorarla. Il film Conclave, diretto da Edward Berger, è una metafora a cui non potremo che rifarci in questi giorni di vigilia e, soprattutto, di interpretazione della solenne riunione del collegio cardinalizio. In particolare, per la scena in cui uno dei porporati italiani, impersonato da Sergio Castellitto, capo della componente più conservatrice, grida in faccia a un esterrefatto segretario di Stato – ricalcato sulla figura di Pietro Parolin, il capo della diplomazia vaticana insediato da Bergoglio, identificato come una delle figure centriste in pole position – “questa è una guerra e tu ti devi schierare”. Non sarà una guerra, non potrà esserlo dopo le ispirate raccomandazioni di Francesco nelle ultime ore della sua vita per una pace ecumenica, ma sarà sicuramente uno scontro forte.
Giorgetti alla prova del nove della legge di Bilancio
“Con riferimento alle spese per la difesa e, più in generale, la sicurezza del Paese, il lavoro di ricognizione secondo la metodologia Nato, effettuato con particolare scrupolo, lascia ritenere che già da quest’anno saremo in grado di raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil assunto nel 2014. Siamo oltremodo coscienti, anche alla luce delle attuali tensioni, dell’esigenza di incrementare tali spese nei prossimi anni”. Questo è un passaggio cruciale della relazione che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha svolto nel corso delle audizioni parlamentari sul Documento di finanza pubblica (Dfp), versione light di quello che un tempo si chiamava Dpef (dove la “p” stava per programmazione, parola tabù in questi tempi programmaticamente incerti) e poi fu ribattezzato Def. Passaggio cruciale, perché esprime forse, più di ogni altra considerazione, l’indirizzo programmatico assunto da questo governo, in linea con i piani di riarmo sui quali scommette la Commissione europea, ma in linea anche, a giudicare dalla mezza benedizione ottenuta da Giorgia Meloni a Washington, con quanto si attende dall’Italia l’attuale amministrazione statunitense.


