Pessimismo, ma sotto controllo
È un’estate all’insegna del pessimismo. Dobbiamo ammetterlo, dato che con i nostri lettori abbiamo preso implicitamente l’impegno di scrivere sempre la verità. Nulla gira come dovrebbe. Né la situazione a Gaza sempre più tragica, né quella della guerra in Ucraina; non il bullismo di Trump, che stravince dinanzi a un’Unione europea governata da destra; e nemmeno (si licet parva…) si intravede nel nostro Paese una chiara unità di centrosinistra, che sarebbe il minimo sindacale per cercare di liberarsi da postfascisti o neofascisti che dir si voglia. Sul “campo largo” avevamo espresso un giudizio abbastanza speranzoso alla fine del 2024 (vedi qui). Ma fino a questo momento non si è messo mano ad alcun programma comune; anzi, sembra che la cosa sia uscita completamente dall’agenda. Certo, numericamente si potrebbe spuntarla in una elezione anche con un mero cartello elettorale in grado di affermarsi nei collegi uninominali. Ma poi? Si riuscirebbe a trovare un accordo tra le forze politiche per formare un governo capace di durare? A essere sinceri, la non-volontà di Conte e dei suoi “progressisti indipendenti” (strana formula, perché ogni partito è “indipendente” senza bisogno di proclamarlo), cioè il desiderio di tenersi le mani libere, ci appare come una forma di avventurismo. E anche dal punto di vista della serietà, come si fa a presentarsi davanti all’elettorato con una proposta che rimane indefinita?
Alcuni punti di un programma di sinistra su cui ci piacerebbe scommettere (diciamo “di sinistra” e non “di centrosinistra”, sapendo che si tratterebbe poi di mediare in vista di un compromesso) sarebbero, parlando in generale, i seguenti: 1) introduzione di una patrimoniale fortemente progressiva, fino al 75% al di là di una certa soglia di reddito; 2) salario minimo stabilito per legge a non meno di dieci euro l’ora; 3) spesa pubblica per la sanità immediatamente riallineata alla media europea (6,6% del Pil) e poi portata più in alto; 3) piano di edilizia sociale, prevalentemente con la ristrutturazione di aree dismesse e comunque senza consumo di suolo, per soddisfare le esigenze abitative popolari e studentesche; 4) uscita dal programma del cosiddetto riarmo europeo, se questo non fosse ripensato nel senso della costruzione di una difesa comune.
L’Unione e la difesa comune
(Articolo pubblicato il 10 marzo 2025)
La necessità di sviluppare il più rapidamente possibile una vera, efficace e adeguata difesa comune europea, secondo un progetto che non si limiterebbe alla sola Unione europea, è basata su tre ragioni e un paradosso. Le prime due ragioni sono geopolitiche: innanzitutto la guerra russa in Ucraina, con la necessità “esistenziale” per l’Europa di continuare a sostenere la resistenza all’invasore; in secondo luogo, il voltafaccia degli Stati Uniti di Trump, che minacciano di ritirare il loro sostegno militare agli europei in ambito Nato e di imporre agli ucraini una pace che sarebbe una capitolazione, secondo i termini dettati da Putin. Oggi nessuno può più dire, com’è stato fatto per decenni nel dibattito sull’opportunità di una difesa comune dell’Unione, che non sia necessario procedere su questa strada, perché comunque c’è la Nato che garantisce la sicurezza dei Paesi europei. La terza ragione sta nell’opportunità di coinvolgere nel progetto della difesa comune il Regno Unito, con la sua capacità militare tra le più rilevanti ed efficienti in Europa, e il suo status di potenza nucleare e di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Tra bazooka e boomerang. Gli effetti della resa dell’Europa a Trump
Quanto peseranno i dazi di Trump sull’economia europea e in particolare sulla già traballante industria italiana? Circolano vari studi, attivati soprattutto dalle associazioni imprenditoriali, che, preoccupate di quello che sta per succedere, hanno ripreso perfino i rapporti con i sindacati per fare fronte comune e chiedere aiuti pubblici in attesa del ciclone. Tra i numeri che girano, c’è la cifra di circa 32 miliardi di dollari di “danni” che coinvolgerebbero principalmente i settori dei trasporti, l’agroalimentare, la meccanica e l’elettronica. Guardando all’Italia, secondo una previsione realizzata dallo Svimez, l’intesa potrebbe portare (comprendendo nelle tariffe anche il settore farmaceutico) a una riduzione del Pil pari a 6,296 miliardi (-0,3%) e a una diminuzione delle esportazioni che arriverebbe fino a 8,627 miliardi, cioè un -14%. Cifre dunque molto pesanti, tenendo presente che l’Italia è il secondo esportatore europeo negli Stati Uniti (67,3 miliardi di euro), dopo la Germania: 157,7 miliardi di euro.
Sentenza Cucchi. Provato anche il depistaggio nel depistaggio
All’indomani dell’ultimo verdetto giudiziario sull’assassinio del giovane geometra romano Stefano Cucchi, occorre fare un bilancio sullo stato dell’attacco portato avanti dalla destra alle tutele contro le violenze delle forze dell’ordine.


