Quando brucia la città
Los Angeles brucia di nuovo. A sessant’anni dai riots contro la discriminazione razziale di burn baby burn, a oltre trenta dalla rivolta per l’assoluzione degli aguzzini di Rodney King, ancora il fumo degli incendi, gli scontri, i saccheggi, i militari ovunque. Quella del 1992 fu una delle più grandi rivolte urbane della storia degli Stati Uniti: al grido di no justice, no peace si scatenò l’inferno. Una settimana di scontri, sessanta morti ufficiali, tremila feriti, dodicimila fermati, trecento negozi saccheggiati. Oggi la città torna ad accendersi; e si ripresenta sulla scena, in tutta la sua pregnanza, la grande questione mai risolta della nostra epoca: l’incrocio tra la globalizzazione e il lavoro migrante, il faccia a faccia tra il grande capitale e il lavoro degli immigrati.
La città con la maggiore presenza migrante degli Stati Uniti è oggetto di un durissimo braccio di ferro tra le truppe mandate dal presidente Trump e i rivoltosi. Stavolta, però, non è stato il razzismo o un pestaggio a scatenare la rivolta, ma una mossa senza precedenti del governo statunitense, che è intervenuto a piedi uniti in una realtà che appariva relativamente tranquilla, scatenando una serie di retate, con l’obiettivo dichiarato di fare piazza pulita dei migranti senza documenti. Migliaia di arresti, rastrellamenti casa per casa: si veniva portati via per l’unica colpa di essere formalmente illegali, privi di documenti e di permessi di soggiorno. È divenuta rapidamente uno spauracchio la Immigration and Customs Enforcement (Ice), la forza di polizia incaricata del controllo e della sorveglianza dei migranti, impiegata nelle operazioni. I dati si rincorrono: non si sa quanti siano i fermati, il famigerato centro di Guantanamo è pieno all’inverosimile, si è favoleggiato anche della presenza di italiani nella prigione. Secondo i dati della Ice, martedì 10 giugno mattina, c’erano più di cinquantacinquemila persone detenute o in stato di fermo.
Schlein e Bonaccini insieme contro i “riformisti”?
“Francamente, detto da un semplice osservatore esterno, non se ne può più”. Non possiamo che fare nostre le parole del politologo Antonio Floridia, pubblicate sul “manifesto”, all’indomani del voto referendario. Il riferimento è all’infinita lotta intestina interna al Pd che, come un virus pandemico, infetta da anni il principale partito della sinistra (o del centrosinistra, altro dilemma che non fa dormire sonni tranquilli a molti), di fatto fin dalla sua nascita, quando Walter Veltroni candidò un falco di Confindustria come Massimo Calearo e Antonio Boccuzzi, unico operaio sopravvissuto al disastro della Thyssenkrupp nel 2007. Un colpo al cerchio e uno alla botte, l’antefatto del renzismo.
La città circondata dalla campagna
Non si tratterà più della strategia maoista degli anni Sessanta, che prevedeva un processo rivoluzionario antimperialista internazionale che avrebbe visto il Terzo mondo e le sue vaste masse contadine finire con l’assediare la città capitalistica; ma è certo che – sia l’incremento della popolazione mondiale sia il declino demografico dei Paesi occidentali, come pure il fatto che i processi di urbanizzazione, con l’onnipresente fenomeno delle migrazioni, interessano l’intero pianeta – pongono davanti ai nostri occhi una realtà molto più complessa di quella che si poteva sintetizzare nello schema “classe contro classe” (sul quale aveva puntato Marx).
Gaza, quel blocco che nessuno deve spezzare
Israele lavora senza sosta per realizzare i suoi piani a Gaza. In diversi modi. Il primo, forse il più importante, è l’isolamento. Tagliandola completamente fuori dal mondo, con la chiusura totale delle frontiere, il blocco navale che impedisce alle imbarcazioni umanitarie di arrivare dal mare, il divieto di ingresso di cibo, medicine e carburante (a parte le briciole distribuite poco e male dalla fondazione privata israelo-statunitense). In quest’ottica, l’assalto alla nave Maddleen della Freedom Flotilla è un segnale che intende ribadire, con la forza, che il controllo totale su Gaza non può essere messo in discussione da nessuno. E per questo Tel Aviv è disposta a violare qualsiasi legge internazionale.


