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Nuovo vertice del Pd: una borraccia ancora vuota
I 5 Stelle e l’effetto Schlein
Schlein, una segreteria ad alto rischio
Zingaretti si dimise da segretario del Pd in circostanze mai del tutto chiarite. Bersani – che adesso considera la segreteria Schlein “una novità con elementi di avventura” (si veda la sua intervista al “Corriere della sera” di oggi, 3 marzo) – dovette dimettersi dopo lo scherzo che gli combinarono i suoi non votando il candidato alla presidenza della Repubblica, Romano Prodi, sul quale era stato raggiunto un accordo la sera prima. La domanda è allora: quanto riuscirà a durare Elly Schlein? E la risposta potrebbe essere: forse solo fino alle elezioni europee del prossimo anno.
Intendiamoci: nonostante quello delle “primarie” sia un meccanismo perverso, del tutto inadatto alla elezione di un segretario di partito, non si può che avere il massimo rispetto per quei cittadini che, andando a votare in una domenica di pioggia, hanno rovesciato i pronostici della vigilia che davano vincente Bonaccini. È stato un sussulto democratico. Ma il punto, purtroppo, è un altro: alla fine la bella impresa dei “nostri” sarà servita a resuscitare un partito più morto che vivo, non soltanto diviso in numerose correnti, ma soprattutto costituzionalmente più centrista che di sinistra? Più legato, in altre parole, a una prospettiva che, prescindendo dal suo modo di fare arrogante, era quella di Renzi? Il quale sarebbe probabilmente ancora alla testa del Pd, se non avesse sbagliato giocandosi tutto su un insensato referendum nel 2016.
Pd, dal partito “contendibile” al partito “conteso”
L’esito delle primarie del Pd ha sorpreso molti: ancora alla vigilia, molti illustri sondaggisti erano certi della vittoria di Bonaccini. Ha pesato, certamente, la difficoltà di “sondare” un corpo elettorale assai sfuggente, impossibile da definire a priori nelle sue dimensioni; ma ha pesato anche una fallace inferenza logica: poiché non era mai accaduto (dal 2009 al 2019) che il vincitore del voto tra gli iscritti non vincesse anche nella competizione “allargata” dei gazebo, e poiché Bonaccini aveva nettamente prevalso nella prima tornata, dunque, sembrava scontato che questo accadesse anche per quella successiva. E invece, è saltato tutto: come spiegare tutto ciò?
Forse, la spiegazione è molto più semplice di quanto possa sembrare: un’ampia massa di elettori del Pd, di ex elettori del Pd e di elettori solo potenziali, ha colto l’occasione di queste primarie per mandare un forte segnale politico, con una duplice valenza: una sorta di “investimento” simbolico (anche passando sopra ai possibili dubbi) sulla figura di Elly Schlein, ma anche una sorta di “voto di protesta” contro un candidato, Bonaccini, che (a torto o a ragione) è apparso l’espressione di una continuità oramai perdente e sfibrata. Da un lato, un messaggio di fiducia e di rinnovamento; dall’altro, una visibile stanchezza nei confronti di un’immagine del Pd come partito-sistema, partito di “rassicurante” gestione del presente, e come partito che, pur proclamandosi “asse” dell’alternativa alla destra, nelle ultime elezioni non aveva certo saputo interpretare questo ruolo.
La sfida di Elly Schlein: abbattere i muri della politica
Majorino segretario!
Ma davvero vogliamo continuare come se nulla fosse accaduto? La sventola incassata a Sagunto (Lombardia e Lazio), mentre a Roma si discute, non lascia spazio a dubbi. Anche il congresso in corso è ormai nomenclatura del passato, come i candidati che lo stanno animando, con i soliti reciproci colpi bassi, soprattutto nelle federazioni meridionali. Allora ci vuole una mossa del cavallo, che non sia di mera furbizia, ma che coniughi contenuti e rappresentatività. Per questo vogliamo comprometterci con una proposta: Majorino candidato unitario alla segreteria.
I dati della Lombardia, al di là della squillante sconfitta, parlano anche di significativi punti di resistenza, e anche di ricostruzione. Majorino ha complessivamente fatto avanzare i consensi al Partito democratico rispetto alle ultime politiche, ma è la geografia del voto che incute un certo ottimismo. Proprio nella disfatta generale vedere le grandi città della regione – Milano, Bergamo, Brescia – confermare con tenacia il proprio sostegno al Pd, rinunciando non solo alle suggestioni della destra governativa, ma anche alle sirene di un “terzo polo” che proprio in quelle città giocava la carta di una candidata forte e di rottura con la maggioranza che aveva governato il Pirellone. Eppure il Pd rimane primo partito in quelle realtà.
Il partito del non voto, una corsa senza freni
13 febbraio 2023, ore 15,10. Chiusi i seggi, da pochi minuti le agenzie di stampa, i siti online e un web sempre più pervasivo hanno cominciato a diffondere le primissime percentuali degli exit poll, che confermano una vittoria netta del centrodestra in Lombardia e nel Lazio. Corrono soprattutto le pesanti cifre sul primo partito, quello del non voto. Gli astensionisti di tutta Italia, provenienti da culture e partiti diversi (ma a quanto pare questa volta soprattutto dalla sinistra), si sono uniti. Al momento in cui scriviamo disponiamo ancora di dati parziali. Ma la tendenza è confermata: in Lombardia la percentuale dell’affluenza è del 41,61% (nel 2018 aveva votato il 73,81%). Nel Lazio la partecipazione arriva al 37,20% contro il 66,55% della tornata precedente. A Roma, in particolare, l’astensionismo ha raggiunto un livello record, con una partecipazione di appena il 35,18% contro il 65,46 del 2018. Ormai in Italia votano meno di quattro elettori su dieci.
La disfatta della partecipazione si era capita molto bene già dalla sera prima. Alle ore 23 di domenica, nel Lazio, aveva votato il 26,28% degli aventi diritto, un dato di molto inferiore al 66,5% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però si votava in un’unica giornata e si votò insieme alle politiche. Quasi la stessa foto in Lombardia, dove ieri sera aveva votato per le regionali il 31,78% degli aventi diritto, meno della metà rispetto al 73,1% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però – come nel Lazio – si votava in un’unica giornata per le regionali e le politiche.
Il ritorno degli anarchici
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”, direbbe il poeta leggendo le cronache di queste settimane. Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico recluso al 41/bis in sciopero della fame e quindi in precarie condizioni di salute, sta facendo affiorare una realtà probabilmente destinata a non esaurirsi rapidamente. La protesta innescata dall’anarchico si sta caricando di significati oscuri e ambigui, che vedono i gruppi malavitosi accodarsi a una spinta contro l’istituto del 41/bis, che ha stroncato quell’attività di collegamento che i criminali riuscirebbero a gestire attraverso la porosità delle carceri nazionali. Ma il caso personale di Cospito è diventato testimonial di una protesta più generale; ed è davvero singolare come proprio l’interessato, che avrebbe ragioni e anche convenienza a separare la propria vicenda da quella dei boss mafiosi, stia facendo di tutto per trasformare le legittime richieste di associazioni e intellettuali, perché sia assicurato un trattamento più umano e garantista a un detenuto quale l’anarchico, in una crociata contro l’idea stessa di carcerazione speciale.
Ma in questa spirale, in cui ovviamente le contorsioni di un governo di destra appaiono ancora più sospette e pelose, come lo sguaiato duo Delmastro-Donzelli ha dimostrato, alzando un polverone indecente contro la trasparente azione dei parlamentari del Pd che volevano sincerarsi direttamente delle condizioni di salute di Cospito, magari per coprire preventivamente collusioni e contiguità che componenti anche nazionali del partito della Meloni hanno mostrato rispetto alla malavita organizzata, emerge anche un dato più squisitamente politico, su cui sarebbe utile aprire una riflessione.
Secondo compleanno per “terzogiornale”
Entriamo oggi, primo febbraio 2023, nel terzo anno di vita della nostra impresa online. Abbiamo cercato di praticare un giornalismo “selettivo” e “riflessivo”. Occuparsi dei fatti, certo, visto che il giornalismo ruota intorno a ciò che accade. Ma se per qualsiasi giornale la selezione è caratterizzante, in modo particolare lo è per il nostro, che intende mettere in questione gli stessi fatti presi in considerazione. Per questo ci siamo sforzati di allargare il più possibile l’orizzonte, pur nel nostro piccolo, guardando a quello che sta succedendo nei Paesi che vengono in genere relegati alle rubriche “esteri”, o le cui notizie vanno cercate sui grandi siti giornalistici mondiali. Abbiamo prestato molta attenzione alla scena internazionale, soprattutto alla sua parte apparentemente periferica, come l'America latina. Anche sulla guerra, che ha funestato il 2022 e dura tuttora, abbiamo avuto un approccio di scavo tra le notizie. Gli eventi che stiamo vivendo cambiano la storia: l’invasione russa dell’Ucraina, e prima l’esplosione della pandemia, hanno scombussolato gli equilibri interni ed esterni all’Occidente, modificando paradigmi che sembravano consolidati – come indica, del resto, il fenomeno internazionale delle nuove destre radicali che mirano a sconvolgere le istituzioni democratiche.
La domanda che spesso ci siamo posti è questa: è più decisivo il dito che indica – anch’esso, in ogni caso, dell’ordine dei fatti – o la cosa indicata? Se puntiamo il dito, per esempio, contro l’esistenza di una maggioranza di destra nel nostro parlamento, imputiamo al tempo stesso, per una parte cospicua, alla insipienza degli “altri” questo risultato. Così, dopo la mancata presentazione di un’alleanza competitiva con le destre alle elezioni del settembre scorso, la nostra lente si è concentrata soprattutto sulla parte a noi più vicina: quella in cui si collocano coloro che pure avevano suonato un campanello di allarme alla vigilia della consultazione, e non hanno saputo poi mettere in campo una proposta elettorale minimamente credibile. È insomma l’assenza di una sinistra politica il dato centrale della situazione italiana odierna, di cui la maggioranza parlamentare di destra, che esprime oggi il governo, è una conseguenza – sebbene quest’assenza sia certo anche il frutto di cambiamenti sociali profondi, che la sinistra non ha saputo cogliere.