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“Il nuovo Codice appalti è sbagliato e pericoloso”. Parla Alessandro Genovesi
Acqua: sprechi, ritardi e troppe politiche sbagliate
La parola acqua è ormai sinonimo di crisi climatica e ambientale. Ed è anche la sintesi degli opposti: si va dalle inondazioni alla desertificazione in un batter di ciglia. Così, mentre in Italia si discute di pietre da fiume e di Mosè, a livello internazionale la questione è presa molto sul serio: proprio mentre scriviamo, a New York, sono in corso i lavori della Conferenza delle Nazioni Unite, che si concluderanno domani. Si affronta il tema delle risorse idriche e ci si prepara ad affrontare le sfide del cambiamento climatico. Come output principale ci si aspetta la pubblicazione della “Water Action Agenda”, un documento di impegni. La Conferenza in corso, infatti, segna un punto intermedio nell’attuazione del Decennio dell’acqua dell’Onu, lanciato nel 2018, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo sostenibile e la gestione integrata delle risorse idriche.
Il problema dell’acqua è davvero una questione centrale, ed è causa ed effetto della crisi climatica e ambientale, come pure dell’aumento delle diseguaglianze mondiali (e forse di guerre future). Per il mondo occidentale si tratta principalmente di una questione economica, con le sue ricadute su tutti i settori della produzione, a partire da quello che una volta era definito “il primario”, ovvero l’agricoltura. Ma in tante parti del mondo la scarsità o la mancanza di acqua è diventata sinonimo di crisi, carestie e conflitti armati, come succede in alcuni Paesi africani. Dipende sempre dal punto di osservazione. Per noi occidentali il problema sono i raccolti, la produzione del vino e i danni e il terrore legati alle inondazioni. Per migliaia di africani, e per altri popoli, si tratta sempre più spesso di una questione di vita o di morte. Secondo stime autorevoli, nel 2050 più di cinque miliardi di persone non avranno un adeguato accesso all’acqua per almeno un mese all’anno.
Congresso Cgil, il giorno dopo
“Il mondo del lavoro vive una situazione molto difficile perché si è poveri anche lavorando”. Lo ha ripetuto il leader della Cgil, Maurizio Landini, a “Mezz’ora in più”, il programma televisivo di Lucia Annunziata, aggiungendo che tra le priorità del sindacato ci sono l’aumento dei salari e il superamento della precarietà. Rieletto quasi all’unanimità dal XIX Congresso della Cgil, che si è chiuso a Rimini sabato 18 marzo, il segretario generale ora ha quattro anni (il suo secondo mandato) per condurre in porto gli obiettivi programmatici già annunciati nel discorso di investitura della sua prima elezione, nel 2019, e confermati nella Conferenza di organizzazione.
Il compito di Landini non è facile perché la Cgil continua ad avere un doppio problema: riconquistare un ruolo politico da protagonista nella interlocuzione con i governi e il parlamento, dopo l’isolamento e la svalorizzazione progressiva degli ultimi anni e – secondo problema (ma forse è perfino il primo) – cambiare la sua organizzazione interna basata ancora sul modello fordista di produzione. Ci sono infatti milioni di lavoratori che attendono il rinnovo del contratto nazionale; ma ce ne sono altrettanti che di contratti non ne hanno mai visto neppure l’ombra. E molti di questi hanno a che fare con le misteriose e incombenti piattaforme digitali e con lo spettro degli algoritmi. Tra tutte queste nuove figure – che si mescolano a profili antichi – ci sono migliaia di giovani che hanno confessato (anche sul palco di Rimini e in una inchiesta condotta dalla Fondazione Di Vittorio) di non aver mai incontrato il sindacato sulla loro strada.
Qualche domanda sul congresso (mediatico) della Cgil
Giorgia Meloni sarà la prima leader di destra a partecipare a un congresso della Cgil. “Giorgia accetta la sfida”. “Giorgia nella fossa dei leoni”. “La prima volta nella tana del lupo…”. Non vi annoieremo con i titoli dei giornali e con gli strilli social. E nemmeno con il dibattito che si è aperto, fuori e dentro il sindacato, sull’opportunità della scelta, che il segretario generale Maurizio Landini ha spiegato con semplicità durante la conferenza stampa di presentazione: “Noi non abbiamo mai avuto pregiudiziali e abbiamo sempre invitato a tutti i nostri congressi i presidenti del Consiglio in carica”. Poi – naturalmente – sono stati i vari governi a scegliere.
E infatti, ripercorrendo la lunga storia congressuale, si scopre che i premier che hanno voluto partecipare “di persona” alle assise del sindacato sono stati in ordine di apparizione: Giovanni Spadolini (1981), Bettino Craxi (1986), Romano Prodi (1996). Silvio Berlusconi, che ha governato l’Italia per un ventennio, inviò al suo posto Gianni Letta (2010). Con un precedente del genere era scontato che la notizia principale del XIX Congresso Cgil, che si terrà a Rimini dal 15 al 18 marzo, sarebbe stata quella dell’annuncio della partecipazione della premier, che parlerà per venti minuti, venerdì 17 marzo. In politica la superstizione è bandita.
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Il partito del non voto, una corsa senza freni
13 febbraio 2023, ore 15,10. Chiusi i seggi, da pochi minuti le agenzie di stampa, i siti online e un web sempre più pervasivo hanno cominciato a diffondere le primissime percentuali degli exit poll, che confermano una vittoria netta del centrodestra in Lombardia e nel Lazio. Corrono soprattutto le pesanti cifre sul primo partito, quello del non voto. Gli astensionisti di tutta Italia, provenienti da culture e partiti diversi (ma a quanto pare questa volta soprattutto dalla sinistra), si sono uniti. Al momento in cui scriviamo disponiamo ancora di dati parziali. Ma la tendenza è confermata: in Lombardia la percentuale dell’affluenza è del 41,61% (nel 2018 aveva votato il 73,81%). Nel Lazio la partecipazione arriva al 37,20% contro il 66,55% della tornata precedente. A Roma, in particolare, l’astensionismo ha raggiunto un livello record, con una partecipazione di appena il 35,18% contro il 65,46 del 2018. Ormai in Italia votano meno di quattro elettori su dieci.
La disfatta della partecipazione si era capita molto bene già dalla sera prima. Alle ore 23 di domenica, nel Lazio, aveva votato il 26,28% degli aventi diritto, un dato di molto inferiore al 66,5% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però si votava in un’unica giornata e si votò insieme alle politiche. Quasi la stessa foto in Lombardia, dove ieri sera aveva votato per le regionali il 31,78% degli aventi diritto, meno della metà rispetto al 73,1% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però – come nel Lazio – si votava in un’unica giornata per le regionali e le politiche.