“Ci uniamo al grido di dolore e alla rabbia di tutta la comunità indiana di Latina per dire basta all’illegalità che produce sfruttamento, violazioni dei diritti umani e morte. In un Paese civile, non può esserci spazio per sedicenti imprenditori agricoli che lucrano sulla vita umana. Facciamo perciò appello a tutte le associazioni datoriali a schierarsi dalla nostra parte per condurre congiuntamente una battaglia di civiltà, perché tragedie come quella di Latina non si ripetano mai più”.
È stata questa la dichiarazione che i tre segretari generali di Fai, Flai e Uila, i sindacati dell’agroindustria, Onofrio Rota, Giovanni Mininni ed Enrica Mammucari hanno diffuso la scorsa settimana, poche ore dopo la notizia della morte del bracciante indiano Satnam Singh. In quel frangente, i sindacati hanno chiesto un incontro con il governo, che ha cercato mediaticamente di parare un colpo d’immagine inferto anche alle istituzioni. Possibile che nessuno si era accorto di nulla? Possibile che il governo dell’ordine e della sicurezza non sia in possesso di informazioni sui nessi diretti tra clan locali e mafie nazionali, nello sfruttamento della manodopera immigrata?
Dopo la tragedia, il teatrino: con le dichiarazioni altisonanti dei ministri Lollobrigida e Calderone, e con l’aiutino del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha ammesso di essere scandalizzato da quello che è successo. Ma il teatrino mediatico si è presto sgonfiato, e i sindacati sono rimasti insoddisfatti dall’incontro con i ministri dell’Agricoltura e del Lavoro. Dal pomposo summit, infatti, solo promesse – più controlli, più ispettori… –, hanno spiegato i sindacalisti della Flai Cgil, che proprio in questi giorni hanno lanciato la campagna delle “brigate del lavoro”, una mobilitazione a tappeto e sul campo, sul modello del “sindacato di strada”: ogni mattina, all’alba, i sindacalisti si ritrovano nei punti strategici del lavoro agricolo della zona di Latina, e vanno in giro nei campi per parlare direttamente con i braccianti italiani e immigrati, cercando al tempo stesso di sensibilizzare la cittadinanza di quei luoghi che vivono sotto il ricatto della criminalità organizzata, e anche la cittadinanza italiana nel suo complesso, visto che, come consumatori, tutti godiamo dei prodotti della terra.
Come dimostrano i recenti rapporti della Guardia di finanza e della Dia, la Direzione investigativa antimafia, il lavoro agricolo, con lo sfruttamento del lavoro attraverso la rete del caporalato, è uno dei business principali dell’economia criminale insieme alla droga, alla vendita di armi e al riciclaggio del denaro sporco. Si parla di “area grigia”, quella zona dai confini opachi, che si dispiega tra legale e illegale, in cui prendono forma relazioni di complicità, collusione e compenetrazione tra tessuto produttivo, sistema politico-amministrativo e potere mafioso.
Il fenomeno è locale e nazionale, visto che, secondo la Guardia di finanza, sono quasi sessantamila le persone che lavorano in nero o con contratti irregolari. Dati che, secondo gli esperti, sarebbero anche sotto stimati. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, che da anni produce un rapporto annuale sul caporalato e le agromafie (è in fase di pubblicazione l’edizione 2024), in Italia ci sono 230mila lavoratori del settore ortofrutticolo che lavorano sotto un regime di caporalato, senza alcun tipo di contratto e diritti. E più in generale è ormai assodato che la tratta di esseri umani è il terzo business delle mafie, per ordine di grandezza e importanza a livello globale, dopo il traffico di droga e armi.
A livello locale, le tante ipocrisie che si stanno ascoltando in questi giorni si sciolgono come neve al sole, se si ha la pazienza di andare oltre le dichiarazioni di facciata, scavando nei rapporti ufficiali di polizia. La gestione dei mercati ortofrutticoli è infatti attenzionata da anni. Il processo iniziato dall’operazione Sud Pontino, arrivato in Cassazione, aveva già chiarito come si articolava l’infiltrazione delle mafie nel settore della distribuzione dell’ortofrutta all’interno dei mercati di Vittoria (Ragusa) e Fondi (Latina). Le indagini e i processi hanno fatto emergere l’accordo tra le diverse organizzazioni mafiose attive sul territorio (in particolare Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra), al fine di spartirsi il business attraverso accordi di non competizione, veri e propri “patti di non belligeranza”. In particolare, la magistratura si è concentrata, in questi ultimi anni, sulle attività economiche relative al mercato dell’ortofrutta di Fondi, già da tempo messo sotto osservazione, al quale si aggiunge il Centro agroalimentare romano, con sede a Guidonia, che, oltre a subire un condizionamento delle organizzazioni criminali, ha visto anche un giro di sfruttamento della manodopera minorile straniera, legato alle realtà coinvolte nell’inchiesta di Mafia Capitale.
In gioco, non ci sono però solo i grandi clan e i grandi giri internazionali. Ci sono anche gli intrecci tra le mafie nazionali e le organizzazioni criminali straniere (indiane, nel caso di Latina) In un libro curato dai maggiori esperti della materia, Mafie straniere in Italia. Come operano, come si contrastano (Franco Angeli editore, 2016), a cura di Stefano Becucci e Francesco Carchedi, troviamo un capitolo sul sistema Latina. I sociologi Carchedi e Marco Omizzolo spiegano che “al sistema di sfruttamento lavorativo dei migranti indiani si aggiungono altri due sottosistemi delinquenziali: da una parte, quello dei caporali di origine punjabi, e, dall’altra, quello degli impiegati e funzionari corrotti che si occupano di produrre atti amministrativi fittizi su richiesta di pochi (ma potenti) imprenditori locali disonesti”. La denuncia è pesante: “Alcuni impiegati, liberi professionisti e funzionari delle amministrazioni pontine sono coinvolti in pratiche corruttive per agevolare questi imprenditori, consigliando loro i mezzi più idonei per aggirare le norme sull’impiego di lavoratori immigrati. Nell’insieme, le organizzazioni criminali punjabi tendono a posizionarsi sia in quell’area che possiamo definire ‘grigia’, definibile in tal maniera per la sua natura ambigua e opaca, sia in quell’area ‘nera’, in quanto del tutto criminale”. Siamo dunque in presenza di una vera e propria tratta di esseri umani: “Le vittime di questa forma atipica di tratta – scrivono Carchedi e Omizzolo –, in quanto il gruppo criminale tende ad attivare relazioni che avvantaggiano indistintamente tutti i contraenti, provengono dallo Stato indiano del Punjab”, un’immigrazione nell’Agro pontino iniziata negli anni Ottanta.
La particolarità delle organizzazioni punjabi è poter assicurare, ancora prima che il migrante lasci il suo Paese, un impiego nelle campagne dell’Agro pontino. Mentre altre organizzazioni criminali coinvolgono i potenziali migranti con false promesse di lavoro, i trafficanti punjabi hanno la capacità di stringere relazioni strutturate con segmenti dell’imprenditoria italiana per l’approvvigionamento di manodopera. L’imprenditore si rivolge al mercato internazionale delle braccia mediante queste organizzazioni specializzate nel soddisfare il suo fabbisogno di manodopera. “Tra i gestori della tratta e alcuni imprenditori pontini – si legge sempre nella pubblicazione di Becucci e Carchedi – vige un rapporto interdipendente e strettamente funzionale: sia per quanto riguarda il reclutamento internazionale della manodopera che il successivo sfruttamento lavorativo in loco. Si tratta di un’alleanza che permette di soddisfare una specifica domanda proveniente da imprenditori disonesti, in modo tale che l’insieme dei sodali coinvolti ottengano consistenti profitti”.
Secondo gli investigatori, le organizzazioni criminali punjabi non sono molte. Nell’area pontina, ne sono state stimate una decina. Queste associazioni criminali sono in grado di garantire discrezione e omertà. Nelle interviste realizzate dai sociologi, e raccolte nella loro pubblicazione, emerge una grande discrezione e un rapporto reverenziale, da parte degli immigrati, nei confronti dei loro sponsor, ovvero di quelle figure che fanno da ponte tra l’India e l’Italia.
Ma cosa si nasconde dietro questa funzione di servizio degli sponsor e dei caporali? Lo capiamo da un’intervista di Francesco Carchedi a un leader della comunità punjabi di Latina, che ovviamente rimane anonimo. “Quanto paga un lavoratore punjabi per venire a Latina?” Risposta: “Dipende se ricco o povero. Se parente o amico di parenti dello sponsor o di qualche suo collaboratore. Primo ricco e non parente paga anche 10.000, 12.000 euro. Secondo povero o parente o amico stretto paga meno: 5.000 e anche 4.000”. Come arrivano? Da soli? Risposta: “No. Lo sponsor ricco porta lavoratori e famiglie. Va là a prenderli o manda uomo di fiducia e li porta qua. Viaggio una settimana, forse più. Con aereo due giorni”. Domanda: “In genere i lavoratori che vengono impiegati in agricoltura sono già a Latina, oppure no? Oppure vengono direttamente dall’India?”. Risposta: “Qui vive una comunità indiana molto estesa. Vengono parenti, amici. E quando sono qua (a Latina) chiedono se possono lavorare e fare domanda di lavoro stagionale quando apre il decreto flussi stagionale ogni sei-nove mesi. Il datore di lavoro dice sì, e chiama lo sponsor per fare tutto. Poi i lavoratori partono con richiesta di lavoro e tornano qua, quando il decreto flussi è aperto. Ma quando vengono qua, pagano tanti soldi al datore di lavoro. Tanti soldi voglio dire 5.000, 8.000, 9.000 e anche più”. Domanda: “A chi li pagano questi soldi e perché?”. “3.000 o 4.000, fino a 4.500 li pagano al datore di lavoro. Li prende proprio il datore di lavoro. Altri 3.000 o 4.000 o più li prende lo sponsor. Lo sponsor prende di più per le spese di viaggio che fa”. “Vuoi dire che il datore di lavoro che sta qui a Latina prende 4.000 euro da questi lavoratori? Per essere presi a lavorare? – chiede giustamente Carchedi. Risposta: “Sì, sì. Per fare richiesta di soggiorno stagionale previsto dal decreto flussi in agricoltura. Per sei-nove mesi”. Ma questo lavoratore quanto prenderà di salario al mese? “Non supera i 600-700 euro al mese per 10-12 ore al giorno”. A questo punto, la domanda è d’obbligo: “Ma scusa: se il lavoratore paga il datore per farsi assumere stagionalmente 4.000-4.500 euro e questo, occupandolo, gli dà 600-700 euro al mese, in pratica al lavoratore tornano indietro i suoi soldi. Se il lavoratore è occupato per sei mesi, rientra dei soldi che ha anticipato al datore per farsi occupare. E se ne lavora nove, a 600 euro al mese, guadagna circa 1.000 euro, mentre se ne prende 700 non arriva a 2.000. Esatto?”. “Sì, esatto. Proprio così. Alla fine tutti i lavoratori sono disperati. E abbandonati senza soldi. È una grande truffa. Nessuno ci difende. Solo il sindacato”.
Tutte queste cose le sanno solo i sociologi che hanno fatto ricerca sul campo e le forze dell’ordine che stilano i rapporti sulla criminalità ortofrutticola? C’è da dubitarne, visto che non si tratta affatto di fenomeni nuovi. “La lotta al caporalato – racconta Angelo Leo, sindacalista e attivista da sempre impegnato contro lo sfruttamento dei braccianti – è cominciata negli anni Sessanta quando ci siamo accorti, in Puglia, che tutto il mercato del lavoro era nelle mani dei caporali. Un fenomeno che è partito quasi per caso, con il ritorno in patria di gruppi di emigranti che erano stati a lavorare in Germania. Prima di allora, i braccianti trovavano lavoro nelle loro zone, poi sono cominciati gli spostamenti dalla Basilicata alla Puglia. E chi era tornato dall’estero con un furgone cominciava a metterlo a disposizione per trasportare i braccianti dalle loro case ai campi di lavoro”.
Il servizio di trasporto si è però trasformato nel corso del tempo in qualcosa di molto diverso, come Leo racconta in un libro del 1997, Vite bruciate di terra, scritto con Leandro Limoccia e Nicola Piacente. Quelle erano storie di italiani, magari ex emigranti. Oggi il caporalato e lo sfruttamento del lavoro nei campi coinvolgono soprattutto immigrati. “Ma è un errore appiattirsi solo sullo sfruttamento dei migranti” – avverte Leo. Il fenomeno coinvolge ancora moltissimi italiani, uomini e soprattutto donne che vanno a lavorare nei campi perché non hanno altre alternative. Siamo in presenza di un fenomeno antico e modernissimo, in cui forme di para-schiavismo e schiavismo convivono con forme estreme di sfruttamento del lavoro povero. Non basterà, quindi, trovare un qualche capro espiatorio isolato. Qui i mostri sono tanti. Anche se ben mascherati.