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Apparentemente rubricato come questione strettamente militare, il braccio di ferro in corso, intorno alla fornitura alla Ucraina dei carri armati Leopard 2, cela in realtà implicazioni che di militare hanno molto poco. Il dibattito sui tank tedeschi, che in questi giorni fa notizia a livello internazionale, viene spesso proposto in termini semplicistici: l’Ucraina ha urgente bisogno di carri armati moderni ed efficienti per difendersi dalla guerra di aggressione di Putin, e si attende solo il placet tedesco per cominciare a mandarli. In questi termini, però, non si comprende la riluttanza del cancelliere Olaf Scholz a consegnarli. A Ramstein, si è probabilmente vissuto senza coglierlo fino in fondo un momento storico. Sottoposto a un’enorme pressione durante la riunione della Nato, attaccato frontalmente dal premier polacco Mateusz Morawiecki, Scholz ha continuato a dire di no, con argomentazioni per la verità a un primo sguardo abbastanza esili: appellandosi al fatto che nemmeno gli americani danno i loro carri Abrams, e che anche altri Paesi europei posseggono i Leopard, che potrebbero inviare agli ucraini. Ma cosa lo preoccupa? Perché tanta ostinazione così fragilmente giustificata? Perché il cancelliere esita a consegnare i carri di ultima generazione?
L’atteggiamento del governo tedesco sta suscitando molte critiche in patria e all’estero. Sempre a Ramstein, durante la conferenza dei ministri della Difesa, anche il neoministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, si è chiuso in un’ambiguità pilatesca, affermando che ci sono buone ragioni per la consegna e buone ragioni contro, e che questi elementi devono essere attentamente soppesati, senza peraltro chiarire in cosa consistano. E non sono solo i membri della Nato a premere sul cancelliere, all’interno della stessa “coalizione semaforo” c’è maretta: la ministra degli Esteri, la verde Annalena Baerbock, ha espresso pubblicamente il suo dissenso e la sua disponibilità a fornire gli agognati Leopard. Su posizioni simili anche i liberali, per non parlare della opposizione cristiano-democratica. Scholz, con il suo rifiuto, mostra però di essere l’unica figura veramente consapevole della posta in gioco, e spicca nella coalizione di governo con una statura politica fino a poco tempo fa insospettata.
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La spirale non si ferma, siamo nel mezzo di una escalation senza precedenti nel cuore dell’Europa: da una parte si dice di volere riprendersi tutti i territori, compresa la Crimea (annessa alla Russia dal 2014), e per questo si compiono anche attentati, come l’ultimo, che ha distrutto il ponte di Kerch; dall’altra, si risponde con le rappresaglie, tornando a bombardare Kiev e altre città ucraine, facendo strage di civili. È evidente che così si finisce dritti nel precipizio (se non ci si è già). Gli Stati Uniti decidono la consegna di nuove armi, ancora più potenti, a Zelensky. L’Unione europea seguita con il refrain che le prospettive di pace – quando, a quali condizioni, in che modo – sono nelle mani degli ucraini, che devono essere padroni del loro destino.
Ebbene, sarebbe il caso di dire con forza che non possono esserlo. Se l’Ucraina, da alleata, vuole diventare parte integrante dell’Unione, entrando in essa a pieno titolo, dovrebbe concordare con il resto dell’Europa le modalità per arrivare – se non altro – a un cessate il fuoco. Nessuno si aspetta una pace duratura nei prossimi anni: ma qualsiasi tregua, anche temporanea, potrebbe profilarsi solo sulla base di un’accettazione almeno parziale – da parte dell’Ucraina – del fatto compiuto. Zelensky e i suoi dovrebbero comprendere che riprendersi la Crimea, per esempio, è fuori portata. La Russia potrebbe ritirarsi, un giorno, anche da lì – ma a quale prezzo? Dopo quanti altri morti nelle città ucraine?