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La Francia in rivolta

Dicevamo che in Francia non c’è la stessa aria socialmente mefitica che si respira in Italia (vedi qui e qui). La vicenda della legge sulle pensioni, fatta passare con un colpo di mano parlamentare – grazie al “49.3”, ma sotto un’ondata di contestazione che non accenna a esaurirsi –, conferma la nostra analisi. C’è da considerare che l’articolo costituzionale in questione è tipico del bonapartismo insito nel disegno semipresidenzialista della Quinta Repubblica: qualcosa di diverso dalla “fiducia” al governo, caratteristica di un regime parlamentare. In Francia non si pone termine a un dibattito in parlamento con un voto – detto appunto “di fiducia” – che serva a compattare una maggioranza recalcitrante; no, si può evitare qualsiasi controversia facendo passare una legge senza neppure votarla. Così un governo di minoranza, privo “di fiducia”, come quello della premier Élisabeth Borne (scelta da un Macron che, in quanto presidente della Repubblica, è anche capo dell’esecutivo), si è auto-approvato una legge sulle pensioni, per la quale non era riuscito a trovare una maggioranza, pur tentando di negoziare a lungo con la destra neogollista (Les Républicains, il cui gruppo parlamentare conta una sessantina di deputati). È insomma la “monarchia repubblicana” francese che ha mostrato la sua protervia.

Le opposizioni sia di sinistra sia di destra, a quel punto, hanno intrapreso la strada della “mozione di censura”, che avrebbe implicato la caduta del governo e l’avvio, molto probabilmente, di una procedura di scioglimento da parte del presidente della Repubblica (si noti il doppio ruolo: il capo dell’esecutivo è anche colui che può sciogliere l’assemblea legislativa). Di fronte a un rischio di elezioni anticipate, il gruppo neogollista si è diviso: e con soltanto nove voti di scarto, la “censura” nei confronti del governo non è passata. Macron può considerarsi il vincitore.

La bufala del complotto

Mentre i migranti continuano a morire nel Mediterraneo, il ministro della Difesa del governo di destra si serve di quello che, da sempre, è uno degli strumenti propagandistici preferiti dei populismi e dei fascismi: la teoria del complotto. In ciò è stato preceduto dal presidente semi-golpista tunisino, Saïed (vedi qui), che già da un po’ ha denunciato l’arrivo di neri sub-sahariani, con l’intenzione, da parte dei trafficanti di esseri umani, di modificare la composizione arabo-musulmana del suo Paese. La minaccia della “sostituzione etnica”, spaventapasseri agitato dall’estrema destra europea, adattata alla realtà tunisina.

Il ministro della Difesa italiano non è arrivato a tanto, ma, con una furba mossa di politica internazionale, ha attirato l’attenzione dell’Unione europea e della Nato sul gruppo Wagner, l’organizzazione militare ultranazionalista privata ma dipendente dal governo russo, che interviene in Ucraina non meno che in alcuni Paesi africani (soprattutto in quelli, come il Mali, entrati in contrasto con la Francia, ex potenza coloniale della zona). L’intento appare chiaro: attraverso le presunte mene di Wagner e della sua “guerra ibrida”, cercare, una volta di più, il coinvolgimento dell’Europa – e ora anche della Nato – nella “difesa delle frontiere meridionali” dell’Unione, utilizzando allo scopo l’antipatia generalizzata suscitata dai Wagner, impegnati al momento nella distruzione della città ucraina di Kharkiv.

Perché la violenza contro le donne?

“Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte del sesso maschile”: così Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Il pensiero socialista ha saputo mettere a fuoco come l’evoluzione sociale sia consistita in un progressivo asservimento della donna all’uomo: specialmente a partire da quelle culture arcaiche in cui è ipotizzabile, al contrario, un sistema delle relazioni del tutto diverso, incentrato sul matriarcato. È soprattutto però con il passaggio al moderno modo di produzione capitalistico che la regola diventa la monogamia come un regime imposto alla donna, per avere la certezza che il patrimonio lasciato in eredità da un uomo vada proprio ai suoi figli e non ad altri. Ma, come Engels non manca di sottolineare, l’istituto monogamico è ipocrita: permette livelli di trasgressione molto differenti nel caso dell’uomo e in quello della donna, con una tolleranza diversa registrata perfino dai codici, che puniscono l’adulterio della donna e non quello dell’uomo, se non in via eccezionale. E con l’adulterio c’è l’altra immancabile istituzione che accompagna la famiglia, quella della prostituzione.

Oggi si dice che le cose siano cambiate. In parte lo sono, è vero, ma non più di tanto, e comunque non esattamente nella direzione sperata. Il capitalismo si è diffuso a tal punto, diventando “modo di produzione e di consumo”, che non esiste più strato sociale al riparo dall’ipocrisia borghese riguardante la famiglia e, più in generale, i rapporti di coppia. Forse le forme più oneste di oppressione della donna sono quelle ancora presenti nel mondo arabo e islamico: in certi contesti, è proclamato a chiare lettere che le donne non contano nulla per sé, che sono solo cose appartenenti a un marito, a un padre, a un fratello. Lì è evidente l’oltraggio che si fa alle persone.

Schlein, una segreteria ad alto rischio

Zingaretti si dimise da segretario del Pd in circostanze mai del tutto chiarite. Bersani – che adesso considera la segreteria Schlein “una novità con elementi di avventura” (si veda la sua intervista al “Corriere della sera” di oggi, 3 marzo) – dovette dimettersi dopo lo scherzo che gli combinarono i suoi non votando il candidato alla presidenza della Repubblica, Romano Prodi, sul quale era stato raggiunto un accordo la sera prima. La domanda è allora: quanto riuscirà a durare Elly Schlein? E la risposta potrebbe essere: forse solo fino alle elezioni europee del prossimo anno.

Intendiamoci: nonostante quello delle “primarie” sia un meccanismo perverso, del tutto inadatto alla elezione di un segretario di partito, non si può che avere il massimo rispetto per quei cittadini che, andando a votare in una domenica di pioggia, hanno rovesciato i pronostici della vigilia che davano vincente Bonaccini. È stato un sussulto democratico. Ma il punto, purtroppo, è un altro: alla fine la bella impresa dei “nostri” sarà servita a resuscitare un partito più morto che vivo, non soltanto diviso in numerose correnti, ma soprattutto costituzionalmente più centrista che di sinistra? Più legato, in altre parole, a una prospettiva che, prescindendo dal suo modo di fare arrogante, era quella di Renzi? Il quale sarebbe probabilmente ancora alla testa del Pd, se non avesse sbagliato giocandosi tutto su un insensato referendum nel 2016.

La scuola domani

Il Centro riforma dello Stato (sezione toscana), Legambiente e la Fondazione per la critica sociale hanno organizzato una serie di seminari online (tuttora in corso, con il titolo generale “Un’altra scuola è possibile?”, vedi qui il programma) per mettere a fuoco, attraverso la lente provocatoria di un “cantiere utopico”, i problemi della scuola in Italia. L’attenzione è concentrata soprattutto sul ruolo e la funzione degli insegnanti, chiamati a svolgere il loro compito formativo in una situazione di difficoltà crescenti. “Terzogiornale” si sta inoltre interessando all’argomento con gli articoli di Stefania Tirini (si veda il suo ultimo qui). Nell’insieme, si va delineando il quadro di una funzione docente segnata da una costitutiva ambivalenza: da una parte, insegnare vuol dire svolgere un’attività di riproduzione sociale, di trasmissione dei valori borghesi e conformistici, legati in particolare alla meritocrazia e alla competizione nella vita e sul mercato del lavoro; dall’altra, c’è l’apertura di una possibilità di fuoriuscita dall’ordine esistente (da cui l’idea del cantiere utopico) mediante la proposta di un insegnamento che contribuisca a costruire, per i giovani, delle vie di cooperazione e maturazione collettiva, incentrate sull’attività del gruppo-classe da intendere come una palestra di riconoscimento reciproco e di autoriconoscimento.

Per mettere in risalto questo secondo aspetto della funzione docente, è necessario puntare su insegnanti che abbiano chiari, anzitutto, gli obiettivi da perseguire. Che non possono essere quelli derivati dai programmi e dalle indicazioni ministeriali – specie se si pensa che il ministero è oggi nelle mani di un esponente fascioleghista –, ma sono quelli iscritti nella Carta costituzionale che, all’articolo 3, impegna la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. È la premessa indispensabile di un insegnamento che non affondi in un’ottica classista, discriminatoria nei confronti dei più deboli. Accanto a questo, dev’esserci lo sforzo di sottrarsi alla funzione “disciplinare”, o più semplicemente autoritaria, considerando che autorevolezza non coincide certo con autoritarismo. Il che significa evitare di ridurre l’insegnamento alla valutazione mediante i voti – i quali, tra l’altro, sono in contraddizione con la collaborazione tra i discenti che ogni docente dovrebbe invece sollecitare.

Lagnanze di una paria

Giorgia Meloni si è lamentata, nel più puro stile postfascista, di essere stata esclusa da una cena di Macron all’Eliseo con Scholz e Zelensky....

In Francia ciò che sembra impensabile in Italia

Sullo sfondo delle agitazioni di queste settimane contro il progetto governativo di riforma delle pensioni (che vorrebbe portare l’età pensionabile da 62 a 64 anni), si ragiona in Francia sul significato del lavoro e del tempo libero. È la conseguenza – ripetiamolo – di un clima politico molto diverso tra il Paese d’oltralpe e il nostro (vedi qui). Se in Francia c’è ancora una sinistra in campo – all’opposizione di un governo centrista tutto sommato non troppo differente da quello italiano precedente di Draghi, al netto del pasticcio delle “larghe intese” –, se in quel Paese esistono delle garanzie come, poniamo, un salario minimo, se infine l’estrema destra non è già arrivata al governo come in Italia, è più facile che si apra uno spazio per una riflessione non semplicemente occasionale sui destini del lavoro nella società contemporanea.

Ne dà conto un articolo apparso su “Le Monde” del 2 febbraio scorso, a firma di Julie Carriat, che definisce la riforma delle pensioni “quasi un’opportunità” per la gauche. Tra parentesi, niente di simile avvenne in Italia al tempo della Fornero, con la cosiddetta sinistra, e gli stessi sindacati, nella trappola di altre “larghe intese”. A fronte di un ministro dell’Interno francese – un ceffo a nome Gérald Darmanin –, che ha denunciato il “gauchismo pigro e bobo”, che nutrirebbe un “profondo disprezzo per il valore lavoro”, la sinistra (forte anche del vecchio testo del genero di Marx, Paul Lafargue, sul Diritto all’ozio) può replicare che il senso della storia consiste in una progressiva riduzione del tempo di lavoro. In altre parole, ci sarà anche un “diritto al lavoro” da proclamare, ma questo non è, non può essere, il centro del discorso. Sta invece in una liberazione dal lavoro il succo di un movimento sociale avanzato. Del resto, già il Partito socialista si era mosso in questo senso negli anni Novanta, con la legge sulle trentacinque ore introdotta dal governo Jospin, sia pure in seguito in vario modo anestetizzata.

Il nome del partito

Nel mediocre dibattito precongressuale del Partito democratico spicca la proposta di aggiungere al suo già anodino nome quello, piuttosto anodino a sua volta, di “del lavoro”. È un po’ la questione che si pose nel momento della (peraltro tardiva) rottura con Renzi: il “movimento democratico e progressista” di Bersani e Speranza prese il nome di Articolo uno, proprio in riferimento a quella centralità del lavoro su cui sarebbe “fondata” la Repubblica italiana. Peccato che quella dizione fosse, già ai suoi tempi, una formula di compromesso proposta da Fanfani, e accettata alla fine anche dalle sinistre che nella Costituente avevano proposto un’altra espressione, molto più netta e decisa: “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”.

La differenza non è di poco conto. Se si parla di lavoro in generale, infatti, ci possono stare dentro anche i capitalisti, gli oppressori di ogni genere, i capimafia e i loro tirapiedi – tutti svolgono un “lavoro”. Altra cosa, e soprattutto nel 1947, era il riferimento ai “lavoratori”, o al “popolo lavoratore”, che costituiva l’asse portante dei partiti di classe. Ovvio che per l’interclassismo democristiano si dovesse cercare un escamotage in grado di accontentare un po’ tutti. E così andò. Se però quello che già allora si era profilato come un compromesso, viene oggi rilanciato come una grande trovata, beh, ciò vuol dire che si è messi proprio male. I partiti del lavoro o laburisti, del resto, hanno tradizionalmente fatto parte dell’ala destra del movimento operaio, collegata in modo stretto a un rivendicazionismo puramente sindacale. Non è un caso che nemmeno Filippo Turati (riformista, sì, ma non “di destra”) abbia mai preso in considerazione la proposta di Rinaldo Rigola, segretario della Confederazione generale del lavoro, che – di destra in destra – fece una brutta fine diventando un collaboratore del corporativismo fascista.

Qualche riflessione sul fenomeno mafioso

Il nostro Guido Ruotolo, in un articolo del 19 luglio 2021, riferisce di un libro pubblicato da Michele Santoro e da lui stesso (vedi qui), che intende offrire una ricostruzione della strage di via D'Amelio, a Palermo, molto diversa da quella diventata nel tempo dominante: non ci sarebbe stato un uomo dei servizi segreti sul luogo dell'attentato a Borsellino, ma un semplice "picciotto" scambiato per un agente. Per conseguenza, gran parte della dietrologia che si è fatta e si va facendo intorno a quel caso (incentrata, com'è noto, sulla scomparsa della famosa "agenda rossa" del magistrato palermitano) sarebbe frutto di fantasia, la strage del 19 luglio 1992 essendo un delitto di mafia, privo di apporti "esterni". Chi scrive non ha particolari elementi di giudizio per sposare una versione dei fatti o un'altra. È fuor di dubbio, però, che nel caso fosse credibile la ricostruzione fornita da Ruotolo e Santoro, basata sulle dichiarazioni a loro rese dal "pentito" Avola, ciò non muterebbe la sostanza, il senso complessivo del discorso circa la mafia come un fenomeno criminale che ha potuto giovarsi, nel corso della storia dell'Italia repubblicana, di una molteplicità di appoggi e collusioni nelle istituzioni e nella politica.

La circostanza che Matteo Messina Denaro sia stato catturato ormai ammalato, al termine di una trentennale latitanza, può servire come una conferma della tesi intorno alla ramificazione dei sostegni di cui godono i boss mafiosi. Potrebbe trattarsi non soltanto, e non principalmente, di un tessuto culturale siciliano che fungerebbe da protezione per un certo ambiente criminale; non sarebbe, cioè, una presunta antropologia locale – l'impasto di arcaismo e modernità tipico del Mezzogiorno d'Italia, con la sua concezione omertosa, familistico-individualista, della vita sociale – alla base delle coperture mafiose, ma qualcosa di più specifico, che attiene alla stessa "storia naturale" del potere in Italia. Siamo in effetti nel Paese delle trame e dei misteri. Nulla di paragonabile, in Europa, alla vicenda italiana: quale altro Paese, per dirne una, ha dovuto subire una minaccia di colpo di Stato fin dall'apertura progressista del primo centrosinistra, negli anni Sessanta, per avere osato mettere in discussione – in particolare con il tentativo di una legge urbanistica sui suoli pubblici – l'assetto proprietario e di potere tradizionale? E dove altro si è mai visto un capo dello Stato (Antonio Segni) coinvolto nell'organizzazione del pre-golpe?

Lotta continua, la rivoluzione impossibile

Decisamente mediocre, ma comunque da vedere, il documentario di Tony Saccucci su Lotta continua, con interviste ad alcuni protagonisti di quella vicenda (come Marco...