
Con quello che sta accadendo nel mondo, dopo la seconda vittoria elettorale di Trump, non sarebbe male cominciare a interrogarsi sulla portata di un concetto analitico che ha tenuto banco in Occidente, già dagli anni Ottanta del Novecento, diventando talvolta un vero e proprio feticcio. Ma le differenze tra il repubblicano Reagan, ex attore di Hollywood che lanciò la moda neoliberale (insieme alla signora Thatcher in Inghilterra), e del tycoon che si è impadronito dei repubblicani statunitensi, saltano agli occhi. L’unico trait d’union lo si può trovare nella spettacolarizzazione della politica di cui entrambi sono artefici – ma anche qui in modo diverso, perché, escludendo le radici in parte televisive del trumpismo, in questo secondo caso sono i social network a farla da padrone. Se un personaggio come Reagan sarebbe stato forse impensabile senza il cinema, il fenomeno Trump è di certo inimmaginabile senza Internet. Fine del paragone.
Queste considerazioni, tutto sommato ovvie, venivano alla mente di chi scrive durante il primo dei seminari organizzati da quello che informalmente si chiama il “gruppo Salvatore Biasco” (ispirato alla lezione dell’economista da non molto scomparso: vedi qui), sotto il titolo “Potere politico e potere economico”, svoltosi in contemporanea alla Casa della cultura di Milano e alla Fondazione Basso di Roma, il 28 aprile scorso. Gran parte degli interventi (in modo particolare quello della sociologa Maria Rosaria Ferrarese, che ha tenuto la relazione iniziale) partivano dall’idea che decenni di neoliberalismo mostrano come la distruzione dei poteri pubblici a favore di quelli privati sia ormai qualcosa di definitivo, e che l’“impazienza dei capitali” (come la chiama Mariana Mazzucato), insieme con le tecnologie informatiche, abbiano posto fine alla possibilità degli Stati di incidere in qualche modo nell’economia.
Ora (a parte l’evidente pessimismo di una posizione del genere riguardo all’idea stessa di una qualsiasi politica riformatrice) le cose con il trumpismo stanno proprio così? Non si può negare che il gruppo di potere riunitosi intorno a Trump, non senza delle tensioni al suo interno, sia un gruppo di privati, forte soprattutto in quello che si può chiamare il complesso finanziario-tecnologico; ma non v’è dubbio che, a un certo punto (un po’ sulla scia del berlusconismo in Italia, che segnò il primo caso di ingresso di un’azienda in politica), questo “complesso” ha avvertito il bisogno di allungare le mani su alcune leve del potere statale, come quelle – non secondarie – della presidenza statunitense. Se lo Stato fosse semplicemente un vecchio arnese pressoché inutilizzabile, ciò sarebbe accaduto?
La politica di estrema destra di Trump, con il protezionismo statale che vorrebbe incarnare – un revival, in un certo senso, della politica economica mercantilista, che tenne banco agli albori della modernità capitalistica, e che vedeva come un fattore di imprescindibile forza, per una nazione, di avere una bilancia commerciale in attivo, con le esportazioni che prevalessero sulle importazioni – è quanto di più lontano ci sia da qualsiasi liberismo. Nel lessico italiano disponiamo di due termini in proposito, quello di “liberismo” in senso strettamente economico, e quello di “liberalismo”, con un significato più ampio e soprattutto politico, ambedue al centro, come si ricorderà, di una famosa controversia tra Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Il primo sosteneva che il liberalismo ha giocoforza in sé il momento del libero scambio; mentre il secondo, rifacendosi a un’idea anche protezionistica, come fu per lunga fase quella dell’Italia liberale post-unitaria, riteneva che il laissez-faire non fosse di per sé un elemento caratterizzante dell’ideologia liberale.
Riprendendo la distinzione e adattandola ai giorni nostri, diremo perciò che l’atmosfera in cui si muove Trump, con i suoi dazi (fin qui più minacciati che reali), sia ancora quella del neoliberalismo? Anche riguardo alla “macelleria sociale” paventata da Mario Pezzella (vedi qui), va ricordato che negli Stati Uniti c’è da farne ben poca, essendo molto debole da sempre lo Stato sociale. No, a nostro parere, si tratta oggi di qualcosa di sostanzialmente diverso: il trumpismo è certamente il frutto di un cocktail tra elementi disparati (dentro c’è anche un culto del “capo carismatico”, per quanto buffonesco possa apparire); nel suo insieme, però, è una reazione al neoliberalismo imperante fin dagli anni Ottanta. Una reazione così evidente che i mercati finanziari hanno a loro volta controreagito, mettendo in serie difficoltà le velleità protezionistiche del presidente statunitense: una reazione neoliberista, proprio in senso strettamente economico, a una politica antiliberista.
Ci sarebbe ancora da spiegare, però, perché quel complesso finanziario-tecnologico che è intorno a Trump lo stia sostenendo. In proposito si potrebbe parlare di un atteggiamento di convenienza, di fare buon viso a cattivo gioco, ma ciò non sarebbe sufficiente. C’è infatti un interesse, soprattutto da parte delle cinque più famose imprese big-tech statunitensi, ad avviare un contenzioso, o se vogliamo un negoziato, con l’Europa per una deregolamentazione, nel più puro stile neoliberista, dell’enorme mercato riguardante i prodotti tecnologici. E c’è inoltre un interesse, nonostante la delocalizzazione della produzione in Cina, a contenere la grande espansione economica di questo Paese.
Dunque ci troviamo in una situazione in cui l’uso di alcune leve statali può essere molto utile ai fini di un rafforzamento di una posizione oligopolistica sul mercato internazionale. Ciò mostra e contrario che lo Stato non è esattamente un ferro vecchio, come pensano molti a sinistra. Del resto, se fosse ormai solo questo, non resterebbe che la rivoluzione mondiale per rovesciare il capitalismo (a ciò ha alluso Carlo Trigilia in un breve intervento finale del seminario del 28 aprile), e nessun tentativo di riavviare una politica riformatrice di sinistra sarebbe immaginabile. Ma se perfino negli Stati Uniti alcuni capitalisti si accorgono che il controllo diretto sulla presidenza può essere utile, perché proprio in Europa – patria dell’intervento statale nell’economia – si dovrebbe avere un atteggiamento di rassegnato nichilismo a proposito dello Stato?
Per finire, Massimo Florio, in un suo saggio pubblicato nel volume “per Biasco” da cui prende le mosse l’annunciata serie di seminari (Ripensare la cultura politica della sinistra, a cura di M. Franzini, R. Genovese, E. Morlicchio, editore Castelvecchi), e poi in una discussione con “terzogiornale” (vedi qui e qui), ha mostrato come, nonostante da decenni l’ideologia neoliberale batta e ribatta per un’uscita dello Stato dall’economia, la tendenza dominante vada ancora nella direzione opposta: l’intervento statale non si è affatto ridotto, semmai è aumentato. Qualcosa che si dovrebbe tenere ben presente a sinistra.