“Ci hanno inseguiti sparando in aria, poi hanno attaccato; mi hanno gettato a terra e colpito con il manico di una pala, nonostante gridassi che sono italiano”: così Riccardo Mattone, attivista di Mediterranea Saving Humans, ha raccontato la terribile aggressione subita in Cisgiordania. “I coloni israeliani sono arrivati in una sessantina, a volto coperto, con armi da fuoco, mazze e taniche di benzina – ha aggiunto –, volevano dare fuoco al villaggio”.
Attacchi come questo sono all’ordine del giorno per gli abitanti degli insediamenti palestinesi. Dal 7 ottobre 2023 al 19 marzo 2024 l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) ha rilevato 660 incursioni violente dei coloni israeliani in West Bank, di cui 59 hanno causato morti. In 526 di questi casi, sono state danneggiate proprietà palestinesi, e in 75 attacchi ci sono stati sia decessi sia perdite materiali. Non solo: da ottobre sono detenuti in attesa di giudizio 2280 palestinesi dell’area, spesso fermati a causa di banali preferenze sui social media, follow a pagine e profili ritenuti sovversivi dai servizi israeliani.
Oggi i coloni detengono circa il 40% del territorio complessivo della Cisgiordania, costruendo continuamente insediamenti illegali secondo il diritto internazionale. E la percentuale è destinata a crescere rapidamente. Secondo quanto segnala l’associazione israeliana Peace Now, il mese scorso, il governo Netanyahu ha approvato un piano di esproprio di terra palestinese di 12,7 chilometri quadrati. Si tratta della più grande espansione degli ultimi tre decenni e riguarda terreni specifici, volti a creare un corridoio militarizzato al confine con la Giordania. Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze israeliano, cresciuto lui stesso in una colonia, si è più volte espresso sulla necessità di accrescere i possedimenti israeliani in una prospettiva sionista: “Siamo venuti per colonizzare la terra, per costruirci e impedire la creazione di uno Stato palestinese, Dio non voglia”. In discorsi pubblici ha inoltre dichiarato di volere “cambiare radicalmente la mappa della Cisgiordania”, in totale contrasto con i trattati di Oslo. Nel 1993 questi territori erano stati destinati, infatti, alla nascita di uno Stato palestinese.
Altrove gli atti politici di Smotrich sarebbero ostacolati dalla comunità internazionale: ne è un esempio l’annessione della Crimea da parte della Russia di Putin. Eppure, la narrazione di un’emergenza continua davanti ai possibili attacchi di Hamas avalla queste pratiche e le fa passare inosservate. Nel frattempo, si moltiplicano le colonie, puntini bianchi ordinati che costellano le colline della zona. Dagli anni Novanta, la popolazione che vi risiede è triplicata, arrivando a toccare le settecentomila unità, circa il 10% degli abitanti di Israele. Se già in precedenza la tendenza dogmatica della “terra promessa” era parte della retorica sionista, dopo il 7 ottobre all’espansione territoriale è stata attribuita anche una valenza di protezione simbolica nei confronti di un nemico fortemente stigmatizzato, e le incursioni si sono fatte sempre più frequenti, così come le demolizioni e gli arresti sommari.
All’inizio di luglio, tre membri della famiglia di Sami Huraini, tra cui un fratello appena quattordicenne, sono stati arrestati nei campi attorno alla loro casa, nel villaggio di Al-Atwani, nella zona di Masafer Yatta in Cisgiordania, dopo aver chiamato loro stessi la polizia per proteggere legalmente il loro terreno dalle incursioni dei coloni. Nel villaggio di Umm al-Kheir, diverse abitazioni sono state distrutte, lasciando intere famiglie senza casa, e, nelle scorse settimane, gruppi di coloni israeliani hanno staccato a più riprese l’acqua corrente. Fino a quando non c’è stato l’attacco all’attivista italiano, sembrava che la presenza internazionale potesse essere un deterrente; ma la sicurezza di rimanere impuniti permette ai coloni atti altrimenti impensabili. Dall’autunno del 2023, nell’area sono state uccise più di 560 persone.
Il governo Netanyahu, che dall’inizio del 2024 ha dichiarato 2373 ettari di terra palestinese proprietà statale israeliana, appoggia personaggi controversi e violenti, come Itamar Ben-Gvir, il ministro più volte immortalato mentre distribuisce fucili d’assalto ai coloni. Lo storico Ilan Pappé in un articolo per la “New Left Review”, ha parlato di “Stato di Giudea”, un progetto sionista che vede “Israele come una teocrazia estesa su tutta la Palestina storica”, e, per raggiungere quest’obiettivo, c’è la determinazione “a ridurre al minimo il numero di palestinesi”. Questo sistema si contrappone al liberale Stato di Israele originario, che, seppure complice e fautore dell’apartheid, manteneva il presupposto di una società democratica e pluralista. Di fatto, dice lo stesso Pappé, per alcuni non è mai esistita veramente l’idea dei due Stati, ma solo quella di territori ancora “da conquistare”.
La prospettiva biblica, che prevede l’annessione coatta di tutta la Palestina storica per assicurare l’arrivo del messia, rende ciechi davanti a qualsiasi forma di diritto. La colonizzazione assume così tratti romantici, in cui la violenza scompare davanti all’urgenza del dogma.
Stephane Dujarric, portavoce dell’Onu, riferendosi alle nuove annessioni territoriali, le ha definite “un passo nella direzione sbagliata”. Ma, nonostante le sanzioni, il governo israeliano persevera nel suo piano su due fronti: la distruzione di Gaza e l’esproprio della Cisgiordania. Anche se le recenti proteste dei giovani ultraortodossi contro la coscrizione, la crescente crisi economica e le pressioni della comunità internazionale, potrebbero avere un effetto sulla politica interna israeliana fermando il progetto sionista, sarà difficile pensare a un futuro di convivenza dopo tanta violenza.