Tag: governo meloni
Sánchez non ci sta
È di sabato 12 novembre la “Dichiarazione congiunta sui flussi migratori dei ministri dell’Interno di Italia, Malta, Cipro e del ministro della Migrazione e dell’asilo della Grecia”. I quattro Paesi del Mediterraneo, definiti da vari giornali “asse del Sud”, ritengono “increscioso e deludente” il meccanismo di ricollocazione degli immigrati all’interno dell’Unione europea, dal momento che l’impegno del 10 giugno 2022 – sottoscritto dai Paesi su base volontaria e temporanea – coprirebbe solo “una frazione molto esigua del numero effettivo di arrivi irregolari” nel corso dell’anno. Tale accordo – si legge nella nota – si sarebbe dimostrato inefficace nell’alleviare la pressione migratoria sui Paesi dell’Unione più esposti. Il comunicato dei quattro si occupa anche e soprattutto del lavoro delle Ong, il cui operato si svolgerebbe al di fuori dello “spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata”. In qualche modo, si auspica una stretta sull’azione delle Ong, definite “navi private”, affinché “rispettino le pertinenti convenzioni internazionali e le altre norme applicabili”.
Pronta e ferma la risposta del governo Sánchez che, evidentemente, non intende essere parte di alcun “asse del Sud”: la Spagna, infatti, pur condividendo “con i suoi partner mediterranei la necessità di istituire un meccanismo per un’equa distribuzione delle responsabilità tra i Paesi dell’Unione, in materia di migrazioni, e lo ha sempre difeso sia all’interno della Med5 sia nei Consigli dei ministri dell’Interno, non può però sostenere proposte che premierebbero i Paesi che non rispettano i loro obblighi in termini di diritto marittimo internazionale, e che andrebbero a discapito di quelli che, come la Spagna, rispettano i loro obblighi internazionali e salvano vite con risorse pubbliche”.
Governo, tutto come previsto
Tempi duri per i sovranismi, che si farebbe meglio a chiamare con il loro vecchio nome di nazionalismi. Possono ben poco: né smarcarsi dall’Europa – da cui i singoli Stati, e soprattutto l’Italia, si attendono i fondi stanziati per reagire alla crisi pandemica –, né coltivare i rapporti con il loro campione Putin, infilatosi in una guerra da cui non riesce a tirarsi fuori. In mancanza di meglio, allora – e un po’ approfittando della generale insipienza di quelli che dovrebbero essere i loro oppositori –, si danno a un esercizio che dura da decenni, quello del revisionismo storico.
Fu per primo Renzo De Felice, nella sua ponderosa biografia politica di Mussolini, a riabilitare in una certa misura anche la fase finale del fascismo, quella di Salò, che non gli apparve come puro e semplice collaborazionismo filonazista, ma come un modo di attutire i danni dell’occupazione tedesca in Italia. Il concetto di “totalitarismo”, poi – da declinare effettivamente al plurale, perché in esso è compreso lo stalinismo –, è da tempo adoperato per un’equiparazione tra comunismo sovietico e nazifascismo, che cerca di far dimenticare il contributo decisivo dato dal primo alla sconfitta del secondo. E per deviare l’attenzione dalla circostanza che la caduta del Muro di Berlino nel 1989 – su cui è tornata Giorgia Meloni – non segna il trionfo della democrazia e la fine del socialismo o del comunismo, perché, con il venir meno del sistema sovietico, giungeva a termine un’altra cosa: un singolare “mostro storico” – da definire, a piacere, “capitalismo di Stato” o “socialismo di Stato” –, che aveva avuto una torsione totalitaria fin da subito, dopo la rivoluzione russa, e si era infine andato estenuando in una forma post-totalitaria che, a ben guardare, dura tuttora, se si pensa al destino attuale della Russia.
Governo Meloni alla prova Fornero
Il raduno, l’adunata, la rimpatriata
La questione della “agenda setting” del governo Meloni
Leggi melonissime?
Primo decreto legge, ieri 31 ottobre, e prima conferma del giro di vite che un governo in camicia un po’ bianca e un po’ nera intende dare al Paese (alla “nazione”, come usa dire il presidente del Consiglio, senza rendersi conto della ridicolaggine dell’articolo maschile). Si tratta di un decreto cosiddetto “omnibus”, che contiene cioè un po’ di tutto – secondo una ormai consolidata, per quanto deprecabile, tradizione –, ma il punto ovviamente non è questo, quanto piuttosto il suo contenuto. Viene introdotta una nuova fattispecie di reato: quella del delitto di rave party, si potrebbe dire. Pene severissime per chi organizza feste o raduni con più di cinquanta persone in aree di ogni tipo, anche dismesse: il che potrebbe includere, a discrezione di prefetti o organi di polizia, qualsiasi occupazione di suolo pubblico o privato – anche quelle, eventualmente, a fini di recupero sociale. Nello specifico, si tratterà di vedere come sarà tradotto in legge il decreto, ma le premesse appaiono pessime.
Altro punto controverso, quello che riguarda l’“ergastolo ostativo”, difeso a spada tratta dalla premier e oggetto, invece, di critica da parte del suo ministro della Giustizia, il più liberale Nordio. A monte, c’è un pronunciamento da parte della Corte costituzionale. Non è ammissibile che un ergastolano – sia pure un incallito criminale – non possa accedere ai benefici di legge (come, per esempio, uscire dal carcere e poi rientrarvi nel corso della giornata) se non sia divenuto, nel frattempo, un collaboratore di giustizia. Ciò significa venire meno al principio di una pena non spietatamente punitiva ma rieducativa – e si potrebbe dire che configuri una sorta di ricatto di Stato nei confronti del detenuto: o ti penti o butto via la chiave della tua cella.
Meloni, il vecchio che si veste di nuovo
Dunque Giorgia Meloni ha la maggioranza in parlamento: ha agevolmente ottenuto la fiducia alla Camera, e, mentre scriviamo, si appresta a riceverla anche nell’altro ramo del parlamento. Possiamo archiviare, per ora, le fibrillazioni post-elettorali, la bagarre per le poltrone ministeriali, le voci dal sen fuggite (più o meno volutamente) che qualcuno, con scarso senso della realtà, ha sperato fossero sufficienti a non far nascere il governo di destra-centro.
Dal punto di vista dell’immagine, farebbe un errore chi sottovalutasse la forza del messaggio simbolico rappresentato da una donna al vertice del governo. Sono tutti legittimi i distinguo sulla estraneità (per alcuni aspetti la contrarietà) della neopresidente del Consiglio alle battaglie femministe; ma la forza del “nuovo” sarà prevedibilmente un formidabile propellente della sua popolarità. Propellente rafforzato dalla rapidissima riscrittura della narrazione dominante, con l’affettuosa attenzione nei confronti di Meloni, da parte di opinionisti e testate giornalistiche, fino a ieri impegnate a lanciare allarmi più o meno drammatici sui rischi che un successo di Fratelli d’Italia e dei suoi alleati rappresentava per il Paese.
Il governo più a destra nella storia della Repubblica
In altri momenti un governo come quello appena insediato avrebbe provocato un’ondata di sdegno, e l’obiettivo sarebbe stato di buttarlo giù al più presto con una spallata. Non avverrà, sebbene non sia da trascurare la possibilità di un incremento della conflittualità sociale, oggi ancora ai minimi storici in Italia. Ma questo governo pessimo, per programmi e per composizione, non ha bisogno di “essere messo alla prova”, come sostengono alcuni commentatori nei giornali borghesi: appare schifoso fin da subito. Non si salva neppure a causa della presenza, per la prima volta nella storia d’Italia, di una donna alla presidenza del Consiglio. Perché questa donna è un esempio di ipocrisia. Si avvale di tutti i risultati raggiunti con grande fatica dai movimenti di emancipazione femminile (considerati in senso lato) e al tempo stesso tende a sabotarli: per esempio, non è sposata, ha una figlia, ma difende la famiglia tradizionale; si pone come una postberlusconiana – e in qualche misura lo è, se si pensa al ruolo di prostitute o yeswomen riservato alle donne dall’orrido tycoon –, ma il suo compagno è un dipendente Mediaset.
Il governo ha davanti a sé un’opposizione parlamentare inconsistente e priva di unità, che gli ha regalato la guida del Paese (la “nazione”, di cui blatera Meloni, non sappiamo cosa sia); se non potrà portare avanti fino in fondo le politiche radicali che ci si aspetterebbe, sarà solo a causa dei soldi che l’Italia deve ancora ricevere dall’Unione europea. Si mettano il cuore in pace i sovranisti e gli euroscettici di ogni tendenza: l’Italia dei postfascisti, a parte i roboanti annunci di “orgoglio”, andrà in Europa con il cappello in mano. A questo scopo, ci sono i ministri degli Esteri e dell’Economia, Tajani e Giorgetti. Tuttavia la guerra contro le Ong che salvano vite umane riprenderà, riprenderà la ripugnante propaganda anti-immigrati. Qualcosa di cui abbiamo purtroppo contezza, avendo vissuto la fase del Salvini ministro, determinata dal Pd di Renzi e dalla sua indisponibilità, in quel momento, a un governo con i 5 Stelle (il che dimostra, tra parentesi, come sia ormai storico l’intreccio tra l’insipienza del Partito democratico e la costituzione di governi di destra).
Una legislatura costituente?
Se questa che sta per aprirsi sarà davvero la legislatura costituente – come noi non ci auguriamo, ma come si augura Marcello Pera, indimenticato ex presidente del Senato per via dell’atteggiamento zelante nei confronti del suo capo, e oggi uomo delle riforme di Giorgia Meloni –, sarà perché qualcuno, fuori dall’area di destra-centro, ci metterà lo zampino. Non solo perché la coalizione di governo non ha raggiunto l’ambita soglia dei due terzi dei seggi in parlamento (che le avrebbe permesso un’autonomia di manovra nell’affossamento della Costituzione), ma anche perché la maggioranza, all’apertura della nuova legislatura, si presenta litigiosa e in difficoltà, tanto che non c’è ancora un accordo sui nomi dei presidenti delle Camere. Lo troveranno, certo, e forse ci beccheremo al Senato il sanbabilino Ignazio La Russa, che menava le mani nelle piazze milanesi tra i Sessanta e i Settanta, mentre alla Camera dovrebbe arrivare il leghista Giorgetti o Molinari. Da una parte, le aspirazioni presidenzialiste-autoritarie; dall’altra, quelle del regionalismo estremo e devastatore.
In ogni caso è chiaro che “sorella Giorgia” sta affrontando non pochi problemi a tenere insieme la sua incerta armata, tra i bisogni senili di Berlusconi e le manie di grandezza del già “capitano” leghista. In più, ha avuto parecchi rifiuti dai nomi sui quali puntava per il super-ministero dell’Economia, così avendone ricavato che Mattarella non sta facendo granché per sostenerla. In realtà, Meloni non ha altri a cui affidarsi, se non appunto il presidente della Repubblica, che dovrà certificare il grado di affidabilità del suo governo, avendo anche il potere di non firmare i decreti di nomina dei ministri: perché il Quirinale non è un luogo della rappresentanza del potere ma quello in cui esso stesso si definisce, il deep-State del Paese, dove si regolano gli orologi. Per questo la leader di Fratelli d’Italia è stata cauta, fino a sparire dai radar: non vuole fare mosse false per poi doversi ritirare per un no del Colle. Non vuole ripetere il “caso Savona”.
Previsioni sulla legislatura che sta per aprirsi
È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.
Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.