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La presa della battigia. Le destre proteggono i balneari

Le promesse vanno mantenute. Soprattutto alla luce di uno scambio. Ed è esattamente quello che sta succedendo a proposito dell’introduzione della concorrenza per la...

“Ruby ter”e il Cavalierato

Alla vigilia della sentenza del processo “Ruby ter”, nel quale la procura della Repubblica di Milano ha chiesto sei anni di reclusione per Silvio...

Lagnanze di una paria

Giorgia Meloni si è lamentata, nel più puro stile postfascista, di essere stata esclusa da una cena di Macron all’Eliseo con Scholz e Zelensky....

Terrorismo (3). Anpi e associazioni delle vittime chiedono il ritiro della...

Fabio Rampelli tiene il punto e non ritirerà la sua proposta di legge per istituire una commissione sui cosiddetti “anni di piombo” (che non...

Il governo Meloni e la “secessione dei ricchi”

Il governo di destra di Giorgia Meloni ha risolto finalmente la “questione meridionale”. La logica è semplice: separare le regioni del Sud da quelle del Nord. Lo Stato nazionale deve prestare i suoi servizi non in base ai diritti che – per definizione e Costituzione – dovrebbero essere uguali per tutti, ma in base ai redditi. Dove c’è più ricchezza, e quindi (almeno in teoria, vista la grande evasione) più entrate fiscali, ci saranno più risorse pubbliche per la sanità, la scuola, il welfare. Lo Stato rimane unito e centralizzato solo per la polizia, l’esercito e la magistratura, che però andrà ben controllata, visti gli “eccessi” nelle intercettazioni sui mafiosi. Questo quadro potrà sembrare esagerato, magari ispirato ai film della fantascienza più distopica prodotti negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti. Ma purtroppo non stiamo parlando di pellicole come Elysium o La notte del giudizio, quanto piuttosto dell’essenza della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata.

Il disegno di legge quadro che approda oggi (2 febbraio) in Consiglio dei ministri, dopo aver avuto un primo via libera dallo stesso governo, comincerà così il suo percorso parlamentare: ci auguriamo che le opposizioni mettano in campo tutta la forza possibile per contrastare e bloccare quella che è stata definita la spaccatura definitiva dell’Italia e forse, con maggiore precisione analitica, la “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti, 2019). Gli uomini del governo, per cercare di ammorbidire il colpo, garantiscono che Meloni continua a pensare che i diritti dei cittadini non devono essere toccati, e che comunque il parlamento sarà il luogo di ogni decisione. Lo stesso ministro Calderoli, che conosciamo bene per le sue battaglie da pasdaran (vi ricordate il “maiale-day” contro i musulmani nel 2007?), è stato costretto a smorzare parzialmente la carica “rivoluzionaria” del suo testo. È stato eliminato, per esempio, il riferimento alla spesa storica, giudicato penalizzante dai governatori meridionali. Ma non è stato fatto nessun passo indietro sul punto politico vero: la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep). Nelle intenzioni del governo dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale (bontà loro); ma i livelli reali – ovvero quante risorse destinare alla sanità o alla scuola in Sicilia, in Campania, piuttosto che in Veneto e Lombardia – saranno decisi in base alle entrate fiscali, e il quadro sarà delegato a uno o più decreti del presidente del Consiglio. Ennesima dimostrazione che, quando parla, la premier mente sapendo di mentire. Non sarà infatti il parlamento a decidere, come ha dichiarato più volte spacciandosi per democratica, ma il governo. O meglio, lei stessa.

Gli inciampi del governo Meloni ai suoi cento giorni  

Quanto durerà il governo Meloni? “Vogliamo garantire stabilità e rimanere al governo per cinque anni”: parole e musica di Antonio Tajani, ministro degli Esteri, da molti anni la figura istituzionale di maggior rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi. Non solo non sarà facile politicamente tenere fede a tali promesse, per Giorgia Meloni e i suoi alleati di complemento, ma sarà impossibile tecnicamente, se si va avanti, come tutti i big della maggioranza di destra-centro dicono di voler fare, con gli ambiziosi programmi di revisione degli equilibri costituzionali. Revisione che dovrebbe passare attraverso l’intervento sull’autonomia regionale differenziata con una semplice legge ordinaria (dato che la sciagurata iniziativa ha le sue radici nella riscrittura del Titolo V della Carta che risale al 2001 e porta le impronte digitali del cosiddetto centrosinistra) e attraverso un progetto di riforma della Costituzione per introdurre il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il “premierato forte”. Gli alleati continuano da mesi a punzecchiarsi sulla tempistica delle due riforme, parallela o disassata a seconda che si parli con meloniani, salviniani o berlusconiani; ma una cosa è certa: se passasse una revisione della forma dello Stato e/o della forma di governo, il Quirinale come lo conosciamo ora sarebbe esautorato, il rapporto fra le Camere e gli esecutivi risulterebbe totalmente stravolto. Quindi il giorno dopo si dovrebbero convocare nuove elezioni. Cinque anni? Anche meno, decisamente meno.

Per ora l’apparato comunicativo della maggioranza, soprattutto di Fratelli d’Italia, punta tutto sui “cento giorni”, traguardo simbolico attraversato senza particolari scossoni, vantando presunti successi per l’andamento del mitico spread sui titoli pubblici e indici di Borsa col segno più, visti come segnali di gradimento dei mitici “mercati” nei confronti della coalizione governativa. Del resto, il consenso dei “mercati”, da qualche decennio a questa parte, è assai più ricercato da gran parte dei leader politici, rispetto a quello degli elettori. Non sono certo loro i primi a prenderlo come punto di riferimento decisivo per l’azione politica. Carlo Calenda, scoppiettante leader di una opposizione non troppo ostile, ricorda non a caso nel contro-bilancio dei cento giorni compilato sul “Foglio” con una serie di pareri di politici e opinionisti vari, che Meloni “ha seguito pedissequamente”, nella legge di Bilancio, “i provvedimenti che Mario Draghi aveva pianificato”. Al momento, prendendo per buoni i sondaggi più recenti, non solo gli operatori finanziari ma anche gli elettori concedono un certo grado di fiducia alla presidente del Consiglio (il suo credito personale oscilla grosso modo fra il 36 e il 46%, nelle diverse rilevazioni demoscopiche) e al partito vincitore delle elezioni, che dal 26%, raccolto nelle urne lo scorso settembre, è stimato oltre il 28: non sfonda, ma è comunque saldamente in testa alle preferenze degli italiani, fratelli o sorelle che siano.

Il governo fuori dal seminato sul caso Cospito

“Azioni del genere non ci intimidiranno. Lo Stato non scende a patti con chi minaccia, tantomeno se l’obiettivo è far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti di terrorismo”. Netto, il governo Meloni sulla vicenda di Alfredo Cospito, detenuto al 41/bis per una serie di attentati. Ricordate il caso Moro? Lo Stato non poteva e non doveva trattare con le Brigate rosse. Per non legittimare il terrorismo. Tutti sappiamo com’è andata a finire, con il povero Moro trucidato dai terroristi assassini. Ecco, oggi il governo Meloni sembra voler evocare quella terribile stagione per non cedere a una richiesta di attenuazione del regime carcerario. Rispondendo così alla “piazza” anarco-insurrezionalista che ha messo in campo una offensiva violenta, con attentati alle sedi diplomatiche italiane in Grecia, Germania e Spagna. E, nelle ultime ore, ha provocato incidenti con le forze di polizia a Roma, in piazza Trilussa (quarantuno anarchici denunciati), fatte esplodere due molotov (sabato notte) al commissariato di polizia del Prenestino, incendiato auto della polizia a Milano e della sede TIM di via Val di Lanzo a Roma.

Non è in discussione la certezza della pena. Alfredo Cospito è un anarco-insurrezionalista della Fai (Federazione anarchica informale), autore di diversi attentati, per i quali sta scontando la pena in carcere. È giusto che sia così. Ma non è questa la materia del contendere. Riassumiamo l’oggetto della disputa proponendo due sole questioni. La prima: è giusto che Alfredo Cospito sia detenuto al 41/bis, cioè al regime carcerario duro? La seconda: pur non avendo commesso omicidi, Cospito rischia l’ergastolo in quanto autore di un attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano che, per la Cassazione, va perseguito come “strage politica”. La procura generale di Torino ha chiesto la pena dell’ergastolo, e il processo è sospeso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.

Terrorismo. Rampelli chiede una commissione di inchiesta

Siamo dunque alla resa dei conti vagheggiata a lungo dal mondo neofascista. Perché questo è la proposta di legge (numero 666) per l’istituzione di...

La Bce e il sovranismo spuntato di Crosetto

Si riaffaccia timidamente il “sovranismo”, nonostante il bagno di realismo “europeo” del governo di destra-centro sulla legge di bilancio (e le bacchettate impartite da Bruxelles su fisco e contanti). Presunta identità politica dai labili confini più che altro propagandistici (sia per chi lo rivendica sia per chi lo demonizza) il sovranismo de noantri è stato momentaneamente riportato in vita da un paio di interviste di Guido Crosetto, ministro della Difesa e ascoltato consigliere di Giorgia Meloni.

Crosetto ha preso di mira le decisioni della Banca centrale europea, a dicembre per quanto riguarda il discusso rialzo dei tassi d’interesse, più di recente per la riduzione, annunciata da tempo, degli acquisti di titoli pubblici sul mercato secondario, strumento che ha consentito di assorbire la crescita del debito pubblico seguita alla crisi pandemica. Alcune decisioni “amplificano la crisi”, ha osservato il ministro, riecheggiando critiche pur presenti nel dibattito internazionale. Poi ha affondato il colpo: l’Europa – ha spiegato – “deve porsi il tema di come coniugare le rilevanti decisioni politiche, assunte in modo indipendente dalla Bce e dall’Eba (l’autorità di sorveglianza europea, ndr), con quelle che prendono la Commissione europea e i governi nazionali. Abbiamo lasciato a organismi indipendenti e che rispondono solo a se stessi la possibilità di incidere sulla vita dei cittadini e sull’economia, in modo superiore alla Commissione europea e soprattutto ai governi nazionali. È legittimo chiedersi quanto sia giusto?”. Quasi una minaccia di riforma dei trattati europei. Vaste programme – diceva De Gaulle; soprattutto per un esecutivo che non ce la fa, per ora, né a tassare gli extraprofitti delle compagnie energetiche né a frenare l’impatto dei costi dei carburanti sui cittadini e sul sistema delle imprese, si affida a roboanti annunci di controlli anti-speculazione affidati alla Guardia di finanza, e inizia a soffrire per le tensioni interne alla maggioranza sul punto.

La corsa dei prezzi spiazza il governo Meloni

L’esecutivo, che aveva promesso la moltiplicazione dei pani e dei pesci, è costretto a fare i conti con una corsa dei prezzi che non...