Mancano poche ore, mentre scriviamo, al primo via libera parlamentare, nell’aula del Senato, al disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia regionale differenziata. È una delle “riforme” di grande impatto che il governo Meloni ha messo in programma, attraverso un rigido sistema di accordi tra le sue principali forze politiche: autonomia a parte, in primo piano ci sono il premierato, la giustizia, il fisco. Un programma che, ove realizzato per intero, andrebbe forse considerato per quello che è: una visione del Paese, anche se in parte frammentaria e contraddittoria, essendo il prodotto di una coalizione; comunque un ribaltamento completo e duraturo dell’impianto costituzionale, che pure era già stato messo a dura prova nei decenni passati, e certo non solo dai governi e dalle forze politiche di destra.
È lecito nutrire dubbi (o speranze, a seconda dei punti di vista: “terzogiornale” ne ha scritto per esempio qui) sulla capacità della coalizione guidata da Giorgia Meloni di portare a termine per intero i suoi progetti. Ma intanto il tempo passa e “il trenino delle riforme va”, come ha sottolineato recentemente, chiacchierando con i cronisti a palazzo Madama, un più che soddisfatto Roberto Calderoli. Del resto, qualche retroscena giornalistico di questi giorni attribuisce alla presidente del Consiglio l’intenzione di ritornare alla formula del premierato “rigido” (ovvero: se cade il governo si torna a elezioni, nessun premier-bis). Formula più gradita a Fratelli d’Italia e più affine all’antica e tradizionale vocazione presidenzialista della destra missina; una modifica che i leghisti non gradirebbero, ma sulla quale Meloni non accetterà facilmente interferenze: se l’autonomia è la riforma della Lega, la giustizia la bandiera di Forza Italia, il premierato è la riforma di Fratelli d’Italia, e quindi come farla non possono deciderlo gli alleati.
Calderoli sbeffeggia gli oppositori
“Quando qualcuno mi dice ‘Calderoli spacca l’Italia’, vorrei dire che l’autonomia differenziata non è nel mio testo di legge di attuazione, ma è nella Costituzione che avete scritto voi”. Una vecchia pubblicità televisiva diceva: “Ti piace vincere facile?”. Così Roberto Calderoli non ha dovuto fare troppa fatica, parlando in aula al Senato, per ricordare che il suo disegno di legge affonda le radici in una delle più azzardate e fallimentari manovre del centrosinistra degli anni Novanta, ormai morente nel 2000-2001, all’epoca del governo Amato II: la sciagurata riforma del Titolo V della Carta, che, nell’infinita presunzione dei gruppi dirigenti di allora, avrebbe consentito di riassorbire in qualche modo gli elettori attratti dalla eresia leghista di Umberto Bossi, che qualcuno si spinse a definire “una costola della sinistra”.
Dei contenuti della riforma “terzogiornale” ha scritto in più occasioni (vedi per esempio qui e qui). Ma in estrema sintesi, Calderoli punta a resuscitare lo schema delle “pre-intese” raggiunte nel 2018 dal governo Gentiloni (eh, sì, il centrosinistra c’entra sempre) con l’Emilia-Romagna – presieduta già allora da Stefano Bonaccini del Pd –, la Lombardia e il Veneto. In ogni caso, quelle o nuove intese dovranno essere sottoscritte fra governo centrale e governi regionali, di fatto lasciando al parlamento un marginale potere notarile di ratifica. Il ministro si è divertito anche a ricordare che, nel corso dell’iter della sua legge, “fino a un certo punto erano quasi tutti autonomisti, poi, di colpo, tutti hanno iniziato a rinnegare l’autonomia differenziata”: effetto, a suo dire, del congresso del Pd e della sconfitta di Bonaccini, che è stato “uno dei primi sostenitori e attuatori dell’autonomia”.
Il braccio di ferro sull’emendamento FdI
A prescindere dai riposizionamenti delle varie forze della minoranza parlamentare – non c’è solo il Pd, anche il Movimento 5 Stelle in passato è stato a tratti subalterno, soprattutto in Veneto e Lombardia, alla retorica regionalista della Lega nordista – l’iter dell’autonomia procede, e la seconda lettura del disegno di legge alla Camera non darà luogo a sorprese, a meno di strappi oggi imprevedibili nei rapporti fra gli alleati di governo. Il poco che era ancora da giocare si è giocato proprio al Senato, soprattutto con il balletto finale attorno all’emendamento presentato da Fratelli d’Italia per il voto in aula.
Tutto ruota attorno ai cosiddetti Lep – Livelli essenziali delle prestazioni – che dovrebbero essere la traduzione in pratica dei diritti da garantire a tutti i cittadini attraverso l’erogazione dei servizi sul territorio, indipendentemente dalla regione di residenza. Esempio classico: se ho bisogno di curarmi per una malattia grave, devo avere ovunque le stesse possibilità di trovare medici, infermieri, apparecchiature diagnostiche o posti letto in ospedale, in Calabria come in Lombardia. La prima formulazione della proposta di modifica di FdI parlava di aumentare “contestualmente” le risorse finanziarie “sull’intero territorio nazionale” a copertura “degli eventuali maggiori oneri per l’esercizio delle funzioni riferibili ai Lep oggetto di trasferimento alle Regioni”. Cioè, per stare all’esempio precedente: se per esercitare le sue nuove funzioni autonome la Lombardia ottiene più fondi dallo Stato, gli stessi soldi (in proporzione agli abitanti) vanno stanziati per la Calabria anche se non sceglie l’autonomia. Ma l’emendamento è stato in un primo tempo accettato da Calderoli a nome del governo Meloni, poi riformulato su richiesta della commissione Bilancio, che deve garantire, rispondendo alle indicazioni della Ragioneria generale dello Stato, e quindi del ministero dell’Economia e delle Finanze, attualmente retto dal leghista Giancarlo Giorgetti, che le norme di legge che vengono votate non contengano spese “occulte”. La Costituzione lo impone: se c’è spesa va trovata la copertura. Risultato, l’avverbio “contestualmente” è sparito: l’emendamento approvato contiene un più stringente richiamo agli “obiettivi programmati di finanza pubblica”, agli equilibri di bilancio e alla prima manovra finanziaria del governo Meloni, la legge 197/2022.
Insomma, “adelante, Pedro, si puedes”. Ma anche se gli effetti concreti della modifica sono solo ipotetici, l’obiettivo politico è raggiunto: il partito di Meloni rivendica di avere salvato l’unità nazionale, la Lega porta a casa una sorta di secessione soft, tornando almeno sul terreno simbolico alla mitica indipendenza della Padania. Agli elettori (delle prossime europee) l’ardua sentenza su chi dei due alleati-rivali avrà convinto maggiormente. E le opposizioni? Contente pure loro, con un po’ di bagarre al Senato sono riuscite a ottenere un rinvio di qualche giorno del voto sulla legge; la forza che hanno attualmente non consente loro di andare molto più in là. E ormai sperano in un referendum abrogativo.