Il Teatro di Roma come la Fiat degli anni Ottanta, a cui legare l’identità e l’insediamento sociale del partito? Sembrerebbe di sì a giudicare da come il vertice del Pd si sta concentrando su questa battaglia. Il tema certo è non marginale, sia nel merito sia nel metodo. Lo spoil system nel settore sta diventando una vera paranoia. La destra dichiara apertamente di voler cambiare il sangue alla cultura nazionale, conquistando le posizioni nodali che determinano l’economia del sistema. L’obiettivo è quello di trasformare tutto in una gigantesca Rai, in cui l’esecutivo detta legge, imponendo non solo i vertici ma l’intera scala decisionale, fino alle posizioni più marginali. Si sta ricostituendo un latifondo nella cultura italiana. Cinema, teatri, tv, sistema museale, la filiera della musica, e ancora eventi e grandi impianti. Ma tutto questo può esaurire l’impegno con cui l’opposizione cerca di contrastare la maggioranza? Come non rimanere vittime dello spoil system, inseguendo il governo nomina per nomina? E soprattutto: come collegare una battaglia di libertà a interessi più generali?
Abbiamo visto che nei mesi scorsi un segmento professionale affine a quello a cui si sta rivolgendo il Pd, quale i sindacati degli sceneggiatori e attori di Hollywood, hanno mandato in scena – è il caso di dire – una dura vertenza sui processi tecnologici e lo strapotere delle grandi piattaforme nell’uso dell’intelligenza artificiale, nel ciclo produttivo dell’audiovisivo, coinvolgendo interessi pubblici e parlando di beni comuni. In quel caso lo scontro sindacale ha rivestito un’importanza globale, rivolgendosi direttamente a quel popolo digitale che si trova dominato dai monopolisti della rete.
Quanto accade nel nostro Paese invece non riesce ad avere un respiro analogo. Certo, Hollywood è una potenza planetaria. Ma le sue controparti sono ancora più incombenti e arroganti. Il punto è capire quale visione si ha del problema, come darle una forma in grado di essere condivisa al di fuori dei confini corporativi. L’occupazione degli spazi culturali attiene alla democrazia, e dunque la battaglia contro elementi di regime totalitario, che si intravedono nell’assillante poltronificio della destra, è una battaglia generale. Ma, nonostante questo, appare ancora troppo un gioco delle parti.
Naturalmente, pesa il fatto che in altre congiunture elettorali le nomine furono decise pressocché con lo stesso metro. Oggi, infatti, tutti i rimossi sono, in qualche misura, riconducibili ad aree del centrosinistra. Ma il nodo, per un partito politico, è ancora un altro: come combinare aspetti di costume e trasparenza istituzionale con una politica che presuppone un restringimento di opzioni democratiche, e più concretamente di tenuta di quel settore fondamentale per il nostro sistema nazionale che è appunto il mondo della narrazione e della creatività. È qui che bisogna consolidare alleanze e convergenze, considerando un teatro, un museo, o il sistema televisivo, un patrimonio del tessuto socio-economico del Paese nei servizi alle persone.
Si tratta anche di combinare la difesa di un ceto professionale – tale la partita, in ultima analisi –, di un ceto fortemente radicato nelle diverse realtà locali del Pd (pensiamo solo a cosa rappresenti a Roma il giro di Goffredo Bettini, o, a livello nazionale, quello di Dario Franceschini), con il respiro di una strategia che veda proprio un partito esercitare un’azione di mediazione e di elaborazione, capace di congiungere sistemi dell’immaginario con snodi molto materiali, come per esempio la questione di Taranto, dove lavoro e ambiente stanno consumando i residui insediamenti della sinistra politica e sindacale; oppure sulle scelte in materia di intelligenza artificiale, che attraversano gangli vitali quali la sanità, l’informazione o la pubblica amministrazione. Concentrarsi su un problema locale, quale il Teatro di Roma, è plausibile se si armonizza l’attenzione del partito su altri aspetti che parlano a settori sociali fondamentali, come il mondo del lavoro industriale, o quello della ricerca e delle grandi realizzazioni tecnologiche.
Le prossime elezioni europee, a cui si guarda come un’ennesima prova di Dio per il futuro del Pd, si costruiscono non partendo dalla risibile questione della candidatura della segretaria, quanto piuttosto dall’arricchimento della rappresentanza politica degli interessi e della forma partito. Sono due temi strettamente intrecciati. Si esce dall’asfittica dimensione di federazione di circoli elettorali che il Pd ha assunto, nella sua variegata periferia, dando corpo e spessore a un ruolo di impresario sociale dell’organizzazione che, diversamente rispetto al secolo scorso, non deve toccare aree sociali già strutturate da conquistare, ma seve per esercitare una funzione di ingegneria sociale, costituendo, all’interno di sciami puntiformi, delle consistenti piattaforme di consenso. Il tornante in cui siamo è questo: dare forma politica stabile a una raccolta di consensi, che appare sempre momentanea e precaria. Si tratta quindi di disegnare modelli organizzativi basati su quello scambio tipico su cui è incardinata ogni realtà della rete: attenzione per partecipazione. È la bacchetta magica che, nel tempo dell’intelligenza artificiale, di questa “rivoluzione dell’io”, può trasformare moltitudini improvvisate in comunità stabili e critiche. Critiche con il governo, ma anche con il partito stesso.
Inoltre: quali sono gli altri interessi che la sinistra rappresenta? Come farli parlare? La domanda rimane sconsolatamente senza risposta. Pensiamo, ancora una volta, al silenzio tombale su un tema strategico quale la tremenda questione di Taranto. Non si tratta di aggiornare le strategie comunicative – come stuoli di consulenti e consiglieri non fanno che ripetere anche per giustificare il proprio strapuntino a corte. Si tratta di capire perché, sul Teatro di Roma, il Pd faccia le barricate, e invece sulla devastante questione di Taranto, dove lavoro e ambiente stanno deflagrando e trascinando un’intera città alla rovina – oltre che declassando un settore portante dell’economia nazionale, quale la siderurgia di qualità –, non si pronunci una sola battuta.
O ancora, per rivolgerci altrove, pensiamo al silenzio circa il programma, del tutto mediocre e irrilevante – annunciato dal governo in vista dei prossimi appuntamenti a cui si prepara la presidenza italiana del G7, iniziata del tutto clandestinamente il primo gennaio – sulle strategie digitali, in particolare sulla visione dell’impatto dell’intelligenza artificiale, che ormai troneggia accanto a ognuno di noi. Eppure stiamo parlando di un tema che attraversa settori fondanti del nostro Paese, dalla sanità all’informazione, dal diritto alla pubblica amministrazione, con ricadute su attività strategiche quali il turismo o la formazione, o lo sviluppo di interi territori. Il governo sbarella, l’opposizione tace.
Scaricare tutto sulle spalle della segretaria sarebbe però troppo facile. E per certi versi anche del tutto incongruo. Elly Schlein è arrivata senza essere vista, ma sta facendo troppo poco per farsi notare ora che è insediata. Il suo intervento, al seminario in Umbria del gruppo parlamentare della Camera, incentrato esclusivamente sui diritti civili individuali, lascia un vuoto enorme sul terreno politico. Ma la segretaria è la conseguenza, non la causa di questa patologia. Il tema che abbiamo dinanzi, diventato centrale già nel passaggio da Bersani a Renzi alla guida del partito, riguarda l’insediamento sociale dell’organizzazione e la forma partito che si è andata configurando. Stiamo parlando di una questione strutturale, non riducibile a questo o quel dirigente. Neppure si può agganciare, tornando all’origine, alla questione dello scioglimento del Pci. Sia lo scenario internazionale, in cui in tutti i Paesi occidentali si osserva un disalberamento delle forze di sinistra, sia la dinamica del fenomeno, che vede ormai il Pd raccogliere aree di opinione nelle zone più ricche e riferirsi invece a piccole sette elettorali in quelle più povere, ci dice che siamo ormai al passaggio finale di una trasformazione. Ma un vero cambio di passo è ancora lungi dall’essere tentato.