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Il governo Meloni e la “secessione dei ricchi”
Il governo di destra di Giorgia Meloni ha risolto finalmente la “questione meridionale”. La logica è semplice: separare le regioni del Sud da quelle del Nord. Lo Stato nazionale deve prestare i suoi servizi non in base ai diritti che – per definizione e Costituzione – dovrebbero essere uguali per tutti, ma in base ai redditi. Dove c’è più ricchezza, e quindi (almeno in teoria, vista la grande evasione) più entrate fiscali, ci saranno più risorse pubbliche per la sanità, la scuola, il welfare. Lo Stato rimane unito e centralizzato solo per la polizia, l’esercito e la magistratura, che però andrà ben controllata, visti gli “eccessi” nelle intercettazioni sui mafiosi. Questo quadro potrà sembrare esagerato, magari ispirato ai film della fantascienza più distopica prodotti negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti. Ma purtroppo non stiamo parlando di pellicole come Elysium o La notte del giudizio, quanto piuttosto dell’essenza della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata.
Il disegno di legge quadro che approda oggi (2 febbraio) in Consiglio dei ministri, dopo aver avuto un primo via libera dallo stesso governo, comincerà così il suo percorso parlamentare: ci auguriamo che le opposizioni mettano in campo tutta la forza possibile per contrastare e bloccare quella che è stata definita la spaccatura definitiva dell’Italia e forse, con maggiore precisione analitica, la “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti, 2019). Gli uomini del governo, per cercare di ammorbidire il colpo, garantiscono che Meloni continua a pensare che i diritti dei cittadini non devono essere toccati, e che comunque il parlamento sarà il luogo di ogni decisione. Lo stesso ministro Calderoli, che conosciamo bene per le sue battaglie da pasdaran (vi ricordate il “maiale-day” contro i musulmani nel 2007?), è stato costretto a smorzare parzialmente la carica “rivoluzionaria” del suo testo. È stato eliminato, per esempio, il riferimento alla spesa storica, giudicato penalizzante dai governatori meridionali. Ma non è stato fatto nessun passo indietro sul punto politico vero: la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep). Nelle intenzioni del governo dovrebbero essere garantiti su tutto il territorio nazionale (bontà loro); ma i livelli reali – ovvero quante risorse destinare alla sanità o alla scuola in Sicilia, in Campania, piuttosto che in Veneto e Lombardia – saranno decisi in base alle entrate fiscali, e il quadro sarà delegato a uno o più decreti del presidente del Consiglio. Ennesima dimostrazione che, quando parla, la premier mente sapendo di mentire. Non sarà infatti il parlamento a decidere, come ha dichiarato più volte spacciandosi per democratica, ma il governo. O meglio, lei stessa.
Gli inciampi del governo Meloni ai suoi cento giorni
Quanto durerà il governo Meloni? “Vogliamo garantire stabilità e rimanere al governo per cinque anni”: parole e musica di Antonio Tajani, ministro degli Esteri, da molti anni la figura istituzionale di maggior rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi. Non solo non sarà facile politicamente tenere fede a tali promesse, per Giorgia Meloni e i suoi alleati di complemento, ma sarà impossibile tecnicamente, se si va avanti, come tutti i big della maggioranza di destra-centro dicono di voler fare, con gli ambiziosi programmi di revisione degli equilibri costituzionali. Revisione che dovrebbe passare attraverso l’intervento sull’autonomia regionale differenziata con una semplice legge ordinaria (dato che la sciagurata iniziativa ha le sue radici nella riscrittura del Titolo V della Carta che risale al 2001 e porta le impronte digitali del cosiddetto centrosinistra) e attraverso un progetto di riforma della Costituzione per introdurre il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il “premierato forte”. Gli alleati continuano da mesi a punzecchiarsi sulla tempistica delle due riforme, parallela o disassata a seconda che si parli con meloniani, salviniani o berlusconiani; ma una cosa è certa: se passasse una revisione della forma dello Stato e/o della forma di governo, il Quirinale come lo conosciamo ora sarebbe esautorato, il rapporto fra le Camere e gli esecutivi risulterebbe totalmente stravolto. Quindi il giorno dopo si dovrebbero convocare nuove elezioni. Cinque anni? Anche meno, decisamente meno.
Per ora l’apparato comunicativo della maggioranza, soprattutto di Fratelli d’Italia, punta tutto sui “cento giorni”, traguardo simbolico attraversato senza particolari scossoni, vantando presunti successi per l’andamento del mitico spread sui titoli pubblici e indici di Borsa col segno più, visti come segnali di gradimento dei mitici “mercati” nei confronti della coalizione governativa. Del resto, il consenso dei “mercati”, da qualche decennio a questa parte, è assai più ricercato da gran parte dei leader politici, rispetto a quello degli elettori. Non sono certo loro i primi a prenderlo come punto di riferimento decisivo per l’azione politica. Carlo Calenda, scoppiettante leader di una opposizione non troppo ostile, ricorda non a caso nel contro-bilancio dei cento giorni compilato sul “Foglio” con una serie di pareri di politici e opinionisti vari, che Meloni “ha seguito pedissequamente”, nella legge di Bilancio, “i provvedimenti che Mario Draghi aveva pianificato”. Al momento, prendendo per buoni i sondaggi più recenti, non solo gli operatori finanziari ma anche gli elettori concedono un certo grado di fiducia alla presidente del Consiglio (il suo credito personale oscilla grosso modo fra il 36 e il 46%, nelle diverse rilevazioni demoscopiche) e al partito vincitore delle elezioni, che dal 26%, raccolto nelle urne lo scorso settembre, è stimato oltre il 28: non sfonda, ma è comunque saldamente in testa alle preferenze degli italiani, fratelli o sorelle che siano.
Previsioni sulla legislatura che sta per aprirsi
È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.
Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.