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Home » Articoli » Che cosa rischia il Sud tra inflazione e autonomia differenziata

Che cosa rischia il Sud tra inflazione e autonomia differenziata

Mentre il Pnrr, che dovrebbe intervenire proprio sull’obiettivo del riequilibrio territoriale, nelle regioni meridionali probabilmente non riuscirà a essere realizzato

4 Luglio 2022 Paolo Barbieri  629

Dove va il Mezzogiorno d’Italia? Quale sarà l’eredità che il Pnrr, varato dal governo “dei migliori” guidato da Mario Draghi, lascerà alle regioni meridionali, già fiaccate dalla fuga in cerca di lavoro e condizioni di vita migliori di due milioni di persone fra il 2002 e il 2017? E l’autonomia regionale differenziata, la “secessione dei ricchi” (di cui “terzogiornale” si era già occupato qui e qui in passato), sulla cui realizzazione sono tornati a spingere i mandarini leghisti, un tempo portabandiera di un’immaginaria Padania secessionista, sarà davvero il colpo di grazia per le speranze di ripresa del Sud?

Le due ministre fra Nord e Sud

Il tema è tornato di attualità, aprendo un’insolita faglia all’interno dell’arcipelago delle destre governative, con la ministra per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna, che a metà giugno si è spinta in parlamento addirittura a citare don Milani (“non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali”), provando a mettere dei paletti sul disegno di legge quadro che sta per essere varato dalla ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini (entrambe sono di Forza Italia, almeno per ora). Per Carfagna “sono tre le questioni imprescindibili: la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep, ndr) e la costituzione del fondo perequativo previsto dall’articolo 119 della Costituzione per le regioni con minore capacità fiscale, il definitivo abbandono del principio della spesa storica e il pieno coinvolgimento del parlamento nel processo attuativo”.

Gelmini non vede ostacoli ma rimanda la palla al campo “finanziario”, a suo giudizio evidentemente distinto da quello politico: “(…) nelle molte interlocuzioni con il Mef (Ministero dell’economia e delle finanze, ndr), ho chiesto che, in parallelo con l’avvio dell’autonomia differenziata, si trovino le risorse per finanziare alcuni Lep sin da subito, come è accaduto per gli asili nido, e che possa dunque realizzarsi una conciliazione fra le istanze dei territori più svantaggiati e le aspettative delle regioni che chiedono l’autonomia”. Insomma, se i soldi si trovano, bene; altrimenti non si può pensare certo di fare aspettare – in un anno già segnato dall’attesa delle prossime elezioni politiche – il Nord “locomotiva del Paese”. Ma con l’inflazione prossima alla doppia cifra, la crisi economica prodotta dalla guerra e dalle sanzioni, che potrebbero portare sia a un crollo della domanda interna sia a un drammatico razionamento delle fonti energetiche, dal cilindro di quale mago dovrebbero saltar fuori le risorse reali per garantire il salto di qualità in infrastrutture e servizi di cui il Mezzogiorno ha bisogno? Come ha osservato sul “manifesto” il costituzionalista Massimo Villone, portavoce di una proposta di legge costituzionale per correggere le storture che hanno portato alla legge Gelmini, “(…) in politica Robin Hood non esiste. Togliere gli asili nido a Reggio Emilia per darli a Reggio Calabria è politicamente impraticabile. Una stagione di vacche magre, di stagnazione e di crescita stentata, non può essere una stagione d’oro per Lep e perequazione. È quel che è accaduto in passato, e che probabilmente accadrà con la guerra in Ucraina”.

Tra i maggiori critici del progetto governativo, l’economista Giuseppe Pisauro, che su “Domani”, in un articolo intitolato L’autonomia differenziata è la secessione della finanza pubblica, mette in evidenza “il serio rischio che le regioni ‘differenziate’ si trasformino di fatto in regioni a statuto speciale” e che per questa via diventi sostanzialmente impossibile programmare l’allocazione delle risorse nel bilancio dello Stato. Un quadro inquietante, che potrebbe essere reso meno drammatico da una gestione del Pnrr che sfrutti davvero fino in fondo l’occasione delle risorse extra promesse da Bruxelles per curare le piaghe secolari del Mezzogiorno. Ma anche su questo non sarebbe prudente essere troppo ottimisti.

Il Pnrr e le città

“(…) vogliamo un Paese più coeso, più attento al benessere dei cittadini, sia nei grandi centri urbani, sia nei borghi sia nelle tante, troppe ‘periferie’ d’Italia. Non si può tollerare l’aumento delle disuguaglianze di genere, nella società, tra regioni e territori (…)”. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza – approvato dal governo Conte 2, nel mese di gennaio 2021, prima della spinta al commissariamento che portò al cambio della guardia a palazzo Chigi – enfatizzava con queste parole il tema dell’uso mirato delle risorse. La stessa Unione europea, nel varo del Next Generation EU che ha dato vita ai Pnrr nazionali, aveva sottolineato l’opportunità di usare lo sforzo finanziario comune per la coesione territoriale e il superamento delle arretratezze delle regioni svantaggiate.

Nella versione definitiva del Pnrr, varata dal governo Draghi nel 2021, si legge che “il 40% circa delle risorse territorializzabili del Piano sono destinate al Mezzogiorno, a testimonianza dell’attenzione al tema del riequilibrio territoriale”. Nel 2022, il ministro dell’Economia, Daniele Franco, lo ha ribadito parlando di un 40,8% assegnato al Sud. Ma non sono poche le voci che si sono levate, a suo tempo, per sottolineare che il superamento del gap nello sviluppo infrastrutturale, economico e sociale del Mezzogiorno avrebbe richiesto di concentrare nelle regioni meridionali il 60% degli investimenti.

È presto ovviamente per trarre un bilancio degli effetti del Pnrr sull’obiettivo del riequilibrio territoriale, ma qualche dato emerge da uno dei primi studi pubblicati sulla materia (qui il link per il documento integrale): “Città e Pnrr” di Gianfranco Viesti – meridionalista già consigliere di palazzo Chigi ai tempi di Romano Prodi –, Carmela Chiapperini ed Emanuela Montenegro. Nell’introduzione, i tre studiosi sottolineano che “alle città del Sud è destinato il 38% del totale degli investimenti allocati fra le città, con grandi differenze fra misura e misura a seconda dei criteri utilizzati: ma essi tendono a concentrarsi solo in alcune di esse”, e che “preoccupano le effettive capacità dei Comuni italiani di realizzare, nei tempi previsti e con qualità, tutti questi investimenti, alla luce della circostanza che le amministrazioni sono molto impoverite di personale e di competenze tecniche. Il quadro è più preoccupante nelle città del Sud. Il Piano non ha purtroppo previsto interventi strutturali per il loro potenziamento; sono in corso diverse opportune iniziative, definite successivamente, in questo senso ma esse appaiono ancora insufficienti”. Sul piano pratico, la ricerca evidenzia la difficoltà nella “messa a terra” dei progetti di spesa: “Se si compie un’analisi dettagliata di tutte le linee di investimento previste dal Pnrr e dal Fondo complementare, è possibile verificare che vi è una assoluta certezza di destinazione nei territori del Sud solo di 22 degli 82 miliardi, per i quali è già disponibile l’elenco dei progetti da realizzare. Essi riguardano principalmente le grandi reti infrastrutturali. La dimensione complessiva degli interventi nel Mezzogiorno e la loro composizione tipologica e per specifici territori dipenderà in misura rilevante dalle modalità di costruzione dei bandi da parte dei ministeri e dalla capacità dei soggetti locali, in primis le amministrazioni comunali, di proporre in tempi molto rapidi progetti in grado di soddisfare i requisiti per il finanziamento, in competizione con progetti provenienti dal resto del Paese”.

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