“Oste, com’è il vino?”. “Ottimo!”. Chissà se la presidente del Consiglio aveva in mente questo modo di dire, quando ha proposto di rivolgersi al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) per una proposta sul tema del salario minimo. “È uno specchietto per le allodole”, ha detto una volta Giorgia Meloni a proposito dell’ipotesi di introdurre anche in Italia il salario minimo legale, strumento di largo uso in Europa, oggetto di una recente direttiva della quale “terzogiornale” si è occupato più volte in passato (per esempio qui e qui).
Nell’agosto scorso, in occasione dell’incontro a palazzo Chigi con la quasi totalità delle minoranze parlamentari (Pd, 5 Stelle, Azione e Alleanza verdi-sinistra), buttare la palla nel campo del Cnel le aveva consentito di congelare l’offensiva politica e mediatica delle opposizioni, per una volta riunite; ma anche di rivolgersi a un “oste” fidato come lo storico alleato e collega ministro nel governo Berlusconi IV, Renato Brunetta. Il quale, oggi presidente del Cnel, è notoriamente tanto critico nei confronti della misura quanto ostile alle forze politiche che la propongono. E non è un segreto nemmeno che fra gli attori sociali, i rappresentanti imprenditoriali e sindacali che siedono nel Consiglio di via Lubin, le resistenze contro il salario minimo siano ancora molto diffuse: di fatto, solo la Cgil ha votato contro il documento (la Uil si è astenuta). Ma, nel gioco a rimpiattino fra istituzioni “amiche”, si è inserita di recente anche la Corte di Cassazione, con una sentenza che richiama i giudici del lavoro alla necessità di tenere conto del dettato dell’articolo 36 della Costituzione, che recita: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”.
Il “vino dell’oste” non delude il governo
A sostegno della proposta le opposizioni interessate (con la consueta dissociazione di Italia viva) hanno raccolto finora – dicono – ben più di mezzo milione di firme ai banchetti. Ma la botte del vino spillato dal Cnel e dal suo oste non ha tradito le attese di palazzo Chigi. Nel suo documento analitico, “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia” (la seconda parte, quella di “proposta”, è attesa a giorni), l’apposita commissione incaricata della consulenza al governo ha sostanzialmente bocciato l’idea. L’informazione più sensibile nei confronti dei sentimenti degli imprenditori ha adeguatamente celebrato l’evento: un esempio per tutti lo fornisce un titolo della “Stampa” (gruppo Gedi): “Lavoro, addio al salario minimo. Brunetta: ‘Concentrarsi sui contratti collettivi’”.
Il cuore del ragionamento del Cnel si rifà alla direttiva europea in materia, che risale al 19 ottobre 2022, e dev’essere recepita nel diritto nazionale entro il 15 novembre 2024. Benché lo strumento sia adottato da ben ventidue su ventisette Stati membri dell’Unione europea, il Cnel scrive: “Come noto la direttiva europea non impone agli Stati membri alcun obbligo di fissare per legge il salario minimo adeguato (…) e neppure di stabilire un meccanismo vincolante per l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi (…). La direttiva è al contrario estremamente chiara nel segnalare, rispetto all’obiettivo di promuovere un sostanziale ‘miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo’ (art. 1), una netta preferenza di fondo per la soluzione contrattuale rispetto a quella legislativa”.
Forte anche l’accento posto dal Cnel sul “collegamento tra condizioni di lavoro, salari e produttività che è niente altro che l’essenza più profonda della funzione della contrattazione collettiva”. Se davvero persistono salari bassi – è la convinzione espressa nel documento del Cnel – è dovuto ai cosiddetti contratti “pirata” (stipulati da organizzazioni sindacali minori, quando non proprio fittizie, al di sotto dei livelli indicati nei contratti stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi).
Il lavoro povero esiste, eccome
Ignorare il tema del drammatico e trentennale arretramento dei salari italiani, segnalato dalle statistiche europee elaborate dall’Ocse, però, serve di fatto a occultare la crescente realtà del lavoro povero in Italia. Una “sparizione” oggetto di durissime critiche anche a proposito del Rapporto annuale dell’Inps, che, come ha spiegato su “Repubblica” Pasquale Tridico, l’ex presidente dell’Istituto silurato dal governo di destra-centro, lo limita addirittura a ventimila persone (lo 0,2% dei lavoratori regolarmente contrattualizzati) o poco meno di novecentomila, se si contano anche i rapporti intermittenti e precari. Mentre la commissione indipendente del ministero del Lavoro, guidata dall’economista Ocse Andrea Garnero, contava circa cinque milioni di lavoratori poveri su base annuale. Tridico punta il dito in particolare sui settori dell’agricoltura, del lavoro domestico (questi esclusi, peraltro, dalle statistiche citate dal Cnel), del turismo, della ristorazione, della logistica, maggiormente funestati tanto dalla precarietà quanto dai salari bassi.
Il salario minimo e l’impatto dell’inflazione
Come sempre, conviene guardare al di là degli angusti confini nazionali del dibattito politico e del mondo dell’informazione, per avere qualche dato in più. Due argomenti molto in voga, fra i nemici del salario minimo legale, sono i possibili effetti inflattivi dei rialzi delle paghe minime e il potenziale impatto negativo sull’occupazione delle categorie interessate: le imprese sarebbero naturalmente spinte a licenziare alla ricerca di altre forme meno costose di impiego della manodopera. Riassumendo gli esiti di una ricerca dell’Ocse in un recente articolo sul “Financial Times”, l’editorialista Sarah O’Connor sottolinea che “in media nei paesi Ocse, i salari minimi legali nominali sono aumentati del 29% tra dicembre 2020 e maggio 2023, mentre i prezzi sono aumentati di circa il 25%. In altre parole, i salari minimi si sono rivelati ‘uno strumento politico utile per proteggere i lavoratori più vulnerabili dall’aumento dei prezzi’, hanno concluso i ricercatori. Né hanno trovato molti motivi per preoccuparsi delle spirali salari-prezzi. I loro calcoli suggeriscono che un aumento dell’1% del salario minimo equivale solo allo 0,09% negli Stati Uniti e allo 0,23% in Francia alla crescita salariale aggregata. I salari minimi sembrano quindi aver superato la prova dell’elevata inflazione”.
Il dibattito è aperto a livello globale, e non verrà chiuso nemmeno in Italia dal prevedibile niet della maggioranza parlamentare. Perfino sul “Sole 24 ore” può capitare, di questi tempi, di leggere opinioni per così dire articolate sul tema. In un’intervista concessa al quotidiano della Confindustria, l’economista statunitense David Neumark osserva che “la contrattazione collettiva e il salario minimo legale non sono necessariamente in contrasto tra loro”, anzi la misura “può rafforzare anche i sindacati” come strumento contro i citati contratti pirata. “In Italia – ricorda Neumark – molti accordi negoziali non piacciono ai sindacati più rappresentativi e alzando il salario minimo si possono eliminare i contratti con condizioni meno vantaggiose per i lavoratori”.
La Cassazione segna un punto
Dalle opposizioni non sono mancate le reazioni alla pronuncia dei giudici della Suprema Corte che “non può essere ignorata”. Ma cos’ha stabilito la Cassazione? In sintesi, che il giudice del lavoro, chiamato a pronunciarsi sul tema del salario percepito dal lavoratore, non può evitare di pronunciarsi nel merito indipendentemente dalla fonte di legittimità (contratto individuale o collettivo) cui fa riferimento l’azienda per giustificare la quantità erogata. “Anzitutto va ricordato – scrivono gli ermellini – che, secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 24449/2016, l’articolo 36, primo comma, della Costituzione garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, ‘nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda’: quello a una retribuzione ‘proporzionata’ garantisce ai lavoratori ‘una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata’; mentre quello a una retribuzione ‘sufficiente’ dà diritto a ‘una retribuzione non inferiore agli standard minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo’, ovvero a ‘una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa’. In altre parole, l’uno stabilisce ‘un criterio positivo di carattere generale’, l’altro ‘un limite negativo, invalicabile in assoluto’”.
Nella causa della quale si è occupata la Cassazione, il limite invalicabile faceva riferimento alla soglia di povertà stabilità dall’Istat. Una indicazione precisa che, al di là delle trincee scavate nel dibattito pubblico e nel confronto parlamentare dalle forze che si oppongono all’adozione del salario minimo legale, potrebbe essere difficile ignorare a lungo, perfino in un parlamento così radicalizzato a destra come quello attuale.