
Il traguardo non è stato ancora raggiunto, ma siamo agli ultimi tornanti. E la direzione sembra quella giusta. Sul salario minimo registriamo, infatti, due notizie positive: la prima riguarda il varo di una Direttiva europea che ora dovrà essere perfezionata e recepita dagli Stati membri; la seconda, la volontà del governo italiano di arrivare a varare una legislazione nazionale in materia, visto che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi in cui non esiste ancora il salario minimo legale (gli altri sono Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e Cipro). In Italia, detto tra l’altro per inciso, viviamo una sorta di strano paradosso sociale ed economico: pur essendo in testa a tutte le classifiche sulla copertura contrattuale (ovvero la percentuale di lavoratori che hanno un contratto), l’Italia è risultata all’ultimo posto nella classifica Ocse sulla dinamica salariale. Un paradosso solo apparente, perché il livello del salario italiano medio è portato molto in basso dai contratti precari, instabili, e dal fenomeno della contrattazione pirata. Ma restiamo per ora sulla Direttiva made in Europe.
Obiettivo uguaglianza
Per combattere le grandi diseguaglianze nel mercato del lavoro, e creare le condizioni per l’applicazione di diritti minimi che garantiscano una vita dignitosa a tutti i lavoratori, l’Europa (sotto la spinta, in particolare, della presidenza francese) ha deciso di scendere in campo fornendo strumenti concreti agli Stati membri e alle parti sociali di cui si riconosce l’importanza nello sviluppo della contrattazione. Così, dopo più di un anno e mezzo di trattative, nella notte tra il 7 e l’8 giugno è stata varata una bozza di Direttiva europea sul salario minimo, promossa dai tre soggetti istituzionali protagonisti: la Commissione, il parlamento e il Consiglio d’Europa. Ora quella bozza dovrà essere perfezionata prima di essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale europea. Un percorso che si concluderà verosimilmente dopo l’estate. Da quel momento, scatteranno i due anni di tempo per il recepimento in ogni singolo Stato membro. Gli Stati dovranno adeguare il salario minimo legale agli standard indicati dalla Direttiva solo nel caso in cui esista già una legislazione nazionale che fissa il salario legale. L’Italia non ha ancora varato una legge, e rimane quindi per ora esclusa dall’obbligo di recepimento. Ma l’effetto di traino, soprattutto dal punto di vista politico, è comunque molto forte perché per la prima volta dall’Europa arrivano degli standard chiari da rispettare.
Definizioni
Nella Direttiva si definisce “salario minimo” la retribuzione minima che un datore di lavoro è tenuto a versare ai lavoratori per il lavoro svolto in un dato periodo, calcolato sulla base del tempo o dei risultati prodotti, e “salario minimo legale” un salario minimo stabilito dalla legge o da altre disposizioni giuridiche vincolanti. Nell’articolo 9 si prevede un punto molto importante: nell’esecuzione degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, gli operatori economici (compresa la successiva catena di subappalto) sono tenuti a conformarsi ai salari applicabili stabiliti dalle contrattazioni collettive e ai salari minimi legali, laddove esistenti. Ed è con l’articolo successivo, il 10, che si stabilisce l’istituzione di un sistema efficace di monitoraggio e raccolta dei dati. A tal fine, gli Stati membri sono tenuti a incaricare le rispettive autorità competenti per sviluppare strumenti efficaci di raccolta dei dati, al fine di monitorare la copertura e l’adeguatezza dei salari minimi e di comunicare annualmente alla Commissione i dati.
Il monitoraggio sarà fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi: si tratta, infatti, di avere sotto controllo il livello del salario minimo legale e la percentuale di lavoratori coperti da tale salario minimo legale; le variazioni esistenti e la percentuale di lavoratori interessati da tali variazioni; le trattenute esistenti; il tasso di copertura della contrattazione collettiva. Per la tutela garantita dal salario minimo, fornita esclusivamente dai contratti collettivi, gli Stati membri devono invece comunicare i seguenti dati: la distribuzione in decili di tali salari ponderata in funzione della percentuale di lavoratori coperti; il tasso di copertura della contrattazione collettiva; il livello dei salari dei lavoratori che non beneficiano della tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi e il suo rapporto con il livello dei salari dei lavoratori che beneficiano di tale tutela minima.
La scoperta della contrattazione
Uno dei punti di novità dell’attuale passaggio politico dell’Europa sociale riguarda il riconoscimento del ruolo delle parti sociali nei conflitti. Per “contrattazione collettiva”, si legge nella bozza di Direttiva, si intende l’insieme delle negoziazioni che avvengono tra un datore di lavoro, un gruppo di datori di lavoro o una o più organizzazioni di datori di lavoro, da un lato, e una o più organizzazioni di lavoratori, dall’altro, per determinare le condizioni di lavoro e di impiego, e/o regolamentare i rapporti tra i datori di lavoro e i lavoratori, e/o regolamentare i rapporti tra i datori di lavoro o le loro organizzazioni e una o più organizzazioni di lavoratori. Il “contratto collettivo” riguarda ogni accordo scritto relativo alle condizioni di lavoro e di impiego concluso dalle parti sociali, a seguito della contrattazione collettiva. Fondamentale anche il concetto di “copertura della contrattazione collettiva”: la percentuale di lavoratori, a livello nazionale, cui si applica un contratto collettivo. L’articolo 4 mira ad aumentare la copertura della contrattazione collettiva. A tal fine, gli Stati membri, in consultazione con le parti sociali, sono tenuti ad adottare almeno misure volte a promuovere la capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale e a incoraggiare negoziazioni costruttive, significative e informate in materia di salari. La norma prevede, inoltre, che gli Stati membri in cui la copertura della contrattazione collettiva (definita all’articolo 3) non raggiunge almeno il 70% dei lavoratori devono prevedere un quadro per la contrattazione collettiva, e istituire un piano d’azione per promuoverla, che deve essere reso pubblico e notificato alla Commissione europea.
Le sanzioni e i dubbi
A differenza di altre Direttive, e di altri interventi che l’Europa ha messo in campo negli anni, nel caso delle regole sul salario minimo e la contrattazione si prevede uno strumento sanzionatorio. L’articolo 12 prevede infatti l’obbligo, in capo agli Stati membri, di prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in caso di violazioni delle disposizioni nazionali che istituiscono la tutela garantita dal salario minimo. Il governo italiano segnala, però, una criticità importante di cui si dovrà tenere conto: “Dal momento che il sistema di determinazione dei salari in Italia è rimesso alla contrattazione collettiva – si legge nel commento del governo italiano – e il modello italiano di relazioni sindacali è caratterizzato da un elevato livello di pluralismo organizzativo, sia dal lato dei lavoratori sia da quello dei datori di lavoro, l’estremo pluralismo delle fonti sindacali renderebbe l’impianto sanzionatorio illegittimo per mancanza della doverosa tipizzazione del precetto in considerazione della indeterminatezza dei minimi obbligatoriamente applicabili.
La presenza, in ciascun settore produttivo, di una pluralità di contratti collettivi, parimenti abilitati, sembrerebbe imporre al legislatore, per conformarsi alla Direttiva e per non ledere il principio di tassatività del precetto, di individuare con una norma di legge la fonte contrattuale di riferimento del minimo salariale rispetto al quale parametrare l’eventuale scostamento tale da comportare la comminazione della sanzione. Nello specifico, la relazione del governo suggerisce, quindi, di vagliare sin d’ora la possibilità di fare riferimento ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali, comparativamente più rappresentativi a livello nazionale nella categoria.
La promessa del governo Draghi
Nella relazione ufficiale del governo italiano sulla Direttiva, si prende atto che la proposta mira soprattutto a promuovere la contrattazione collettiva sui salari di tutti gli Stati membri e a conseguire ulteriori miglioramenti in termini di adeguatezza, riducendo al minimo le variazioni dei salari minimi legali per specifici gruppi di lavoratori o le trattenute sulla retribuzione. Con particolare riferimento al principio di sussidiarietà, il governo italiano ricorda che, “pur spettando agli Stati membri la competenza in merito alle retribuzioni a livello nazionale, le grandi differenze nelle norme per l’accesso a un salario minimo adeguato all’interno di essi creano notevoli discrepanze nel mercato unico che possono essere affrontate al meglio a livello dell’Unione. L’azione, a livello dell’Unione, potrebbe essere più efficace di quella a livello nazionale nel rafforzare i sistemi di determinazione dei salari minimi, e dovrebbe contribuire a garantire la parità di condizioni nel mercato unico, aiutando a colmare le grandi differenze, in termini di copertura e adeguatezza dei salari minimi, che non sono giustificate da condizioni economiche di fondo. Tali obiettivi non possono essere conseguiti in misura sufficiente e uniforme, senza un’azione coordinata degli Stati membri”. La proposta di Direttiva, secondo quanto affermato nella relazione di palazzo Chigi, “può dunque ritenersi conforme anche all’interesse nazionale, in quanto sarebbe intenzione del governo italiano adottare un disegno di legge per introdurre anche in Italia il salario minimo, in attuazione dei principi sanciti dalla nostra Costituzione”.