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Caso Cospito, anarchici in rivolta
Spetterà alla Corte costituzionale la decisione di concedere o meno le attenuanti all’anarchico Alfredo Cospito, accusato di aver piazzato, nel 2006, due ordigni nelle vicinanze della Caserma allievi carabinieri di Fossano, vicino a Cuneo. La Corte d’assise di appello di Torino ha infatti deciso di inviare gli atti alla Consulta, accogliendo la questione di legittimità costituzionale sull’attenuante rispetto al reato di strage politica – secondo gli avvocati dei due militanti della Federazione anarchica informale (Gianluca Vitale, difensore di Anna Beniamino, Flavio Rossi Albertini di Cospito) non si possono trattare nello stesso modo, con la stessa risposta sanzionatoria, fatti di gravità incommensurabilmente diversa, come una strage di mafia, con vittime, e quello che può essere considerato un atto dimostrativo, sia pure dannoso ma senza vittime. Il procuratore generale Francesco Saluzzo e il pm Paolo Scafi avevano chiesto l’ergastolo e dodici mesi di isolamento diurno per Cospito; 27 anni e un mese per la compagna, Anna Beniamino. Nel caso venisse accolta l’attenuante, l’anarchico, già condannato a vent’anni per Fossano e a dieci per l’attentato all’amministratore delegato dell'Ansaldo di Genova, Roberto Adinolfi, gambizzato nel 2012, rischierebbe una pena tra i ventuno e i e ventiquattro anni.
Il caso giudiziario fa discutere: l’azione dei due anarchici è gravissima, ma si dibatte molto sulla opportunità di infliggere a Cospito l’ergastolo ostativo – cioè senza nessuna speranza di ottenere benefici di qualsiasi genere – e di mandarlo al 41/bis, il cosiddetto carcere duro: tecnicamente, l’inchiesta “Scripta manent”, da cui scaturisce il rinvio a giudizio dei due anarchici, ha ritenuto Cospito “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo”, la Federazione anarchica informale, condannandolo inizialmente a venti anni di carcere; ma poi la Cassazione riqualificò l’accusa di strage contro la pubblica incolumità in strage contro la sicurezza dello Stato – art. 285 del codice penale –, reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, pur in assenza di vittime.
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Una legislatura costituente?
Se questa che sta per aprirsi sarà davvero la legislatura costituente – come noi non ci auguriamo, ma come si augura Marcello Pera, indimenticato ex presidente del Senato per via dell’atteggiamento zelante nei confronti del suo capo, e oggi uomo delle riforme di Giorgia Meloni –, sarà perché qualcuno, fuori dall’area di destra-centro, ci metterà lo zampino. Non solo perché la coalizione di governo non ha raggiunto l’ambita soglia dei due terzi dei seggi in parlamento (che le avrebbe permesso un’autonomia di manovra nell’affossamento della Costituzione), ma anche perché la maggioranza, all’apertura della nuova legislatura, si presenta litigiosa e in difficoltà, tanto che non c’è ancora un accordo sui nomi dei presidenti delle Camere. Lo troveranno, certo, e forse ci beccheremo al Senato il sanbabilino Ignazio La Russa, che menava le mani nelle piazze milanesi tra i Sessanta e i Settanta, mentre alla Camera dovrebbe arrivare il leghista Giorgetti o Molinari. Da una parte, le aspirazioni presidenzialiste-autoritarie; dall’altra, quelle del regionalismo estremo e devastatore.
In ogni caso è chiaro che “sorella Giorgia” sta affrontando non pochi problemi a tenere insieme la sua incerta armata, tra i bisogni senili di Berlusconi e le manie di grandezza del già “capitano” leghista. In più, ha avuto parecchi rifiuti dai nomi sui quali puntava per il super-ministero dell’Economia, così avendone ricavato che Mattarella non sta facendo granché per sostenerla. In realtà, Meloni non ha altri a cui affidarsi, se non appunto il presidente della Repubblica, che dovrà certificare il grado di affidabilità del suo governo, avendo anche il potere di non firmare i decreti di nomina dei ministri: perché il Quirinale non è un luogo della rappresentanza del potere ma quello in cui esso stesso si definisce, il deep-State del Paese, dove si regolano gli orologi. Per questo la leader di Fratelli d’Italia è stata cauta, fino a sparire dai radar: non vuole fare mosse false per poi doversi ritirare per un no del Colle. Non vuole ripetere il “caso Savona”.
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Meloni sull’aborto. Una mastodontica manipolazione
L’insistente rassicurazione di Giorgia Meloni circa le sue intenzioni di non modificare la legge sull’interruzione di gravidanza nasconde, ovviamente, l’obiettivo di frantumarla. Sembra di sentirla: “Che devo fa’ pe’ convinceve?”. Non intendiamo sostenere che abbia una personalità multipla, tutt’altro. Il punto è che il disegno della destra va decisamente in un’altra direzione: e possiamo dirlo con certezza, perché è già attuato dalle loro giunte regionali, Marche e Piemonte in particolare, dove l’accesso al servizio viene reso difficile ed è impedito l’uso della pillola abortiva Rsu 486 (sdoganata con fatica in Italia, mentre l’Europa ne fa uso da tempo), magari imponendo il ricovero per la sua somministrazione, benché non previsto dalle linee guida del ministero della Salute. Oppure infestando le strutture con i volontari pro-life, sovvenzionati da soldi pubblici, che si aggirano nei locali per scoraggiare le disgraziate di turno.
E poi la semplificazione del messaggio meloniano è solo il frutto di una mastodontica manipolazione, che consiste nel non dire e nel deformare le posizioni altrui: lei dissimula, gridando “non toccherò la 194!”, ma attribuendo ai sostenitori della legge l’intenzione di volere fare abortire ogni donna, finanche al nono mese! Ridicolizzando e svilendo a caricatura ogni posizione che difende una storica legge, che ha funzionato al punto da portare l’Italia ad avere un tasso di interruzioni volontarie di gravidanza tra i più bassi al mondo.