Come un guizzo di luce sbuca il caso Moro dalle brevi frasi di un’intervista. Il vecchio saggio Giuseppe De Rita, patron del Censis, presentando sul “Corriere della sera” il suo ultimo lavoro (edito da Solferino, Oligarca per caso, scritto con Lorenzo Salvia), si sofferma con lucide considerazioni soprattutto sulle classi dirigenti e – da “oligarca” qual è, cioè “appartenente a una cerchia di persone che hanno tra loro un rapporto orizzontale di fiducia” – vede lo scollamento tra il potere reale delle grandi piattaforme e quello di un povero ministro (neanche lui può evitare di fare l’esempio di Lollobrigida). La stessa Meloni – dice – appare come una furbetta che sa dove c’è la gente che conta, Musk o il Fink di BlackRock, e strizza loro l’occhio, consapevole che il suo premierato non le darà più forza. Riflessioni attualissime di un novantaduenne che, forse, ha voluto far sapere di conoscere a fondo le cose del nostro Paese, alludendo, appunto, alla vicenda di Aldo Moro.
Da giovanissimo, aveva conosciuto il castello della contessa Margherita Caetani, sposata con il duca Roffredo, signore della rocca di Sermoneta, dove si tenevano corsi per studenti organizzati da un “misterioso Movimento di collaborazione civica. Non so se fosse una creazione angloamericana per insegnare la democrazia alle nuove leve. So che era uno spazio di circolazione orizzontale”. Ecco, i Caetani sono dentro questo ambiente, che accoglieva lui, “Franco Rodano, che poi scriveva pezzi dei messaggi natalizi di Pio XII, o un futuro segretario della Dc come Guido Gonella. Impensabile oggi”, dice De Rita.
Ebbene, egli non fu frequentatore della nobile famiglia Caetani – ricorda quell’estate sulla rocca – ma evidentemente sa qualcosa a proposito del loro ruolo durante quei cinquantacinque giorni della primavera 1978. Dice poche parole, esprimendo sostanzialmente due concetti. Il primo è racchiuso in queste frasi: “Furono immessi [i Caetani] nel circuito per salvare Moro, probabilmente erano vicini a un accordo per portarlo in Vaticano. E invece no, lo ammazzano e glielo lasciano proprio in via Michelangelo Caetani, altro esponente della famiglia, sotto la lapide del centro studi italo-americano, anche quello creatura della principessa Caetani. È possibile che lo sfregio non fosse verso il Pci, la cui sede stava a 50 metri, o verso la Dc che stava a 150 metri. Era ai Caetani”.
La faccenda venne affrontata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, dopo un corposo dossier investigativo dei carabinieri del Ros, innescato da una certa fonte e incentrato attorno alla figura del musicista ucraino Igor Markevitch, individuato prima come possibile “grande vecchio”, inquisitore del prigioniero Aldo Moro, poi ridimensionato dalle ricerche a personalità di mediazione (due testi fondamentali al riguardo sono quelli di Giovanni Fasanella, Il grande intermediario, con Giuseppe Rocca, Einaudi, 2003, e, prima ancora, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, con Claudio Sestrieri e Giovanni Pellegrino, Einaudi, 2000). Sposato con Topazia Caetani – nel luglio del 1947, figlia di Michelangelo a cui è dedicata la via nella quale si conclusero tragicamente i cinquantacinque giorni del sequestro Moro –, Markevitch, secondo una seria ma non provata tesi sostenuta dall’ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, sarebbe riuscito a disinnescare gli effetti delle rivelazioni di Moro e a portarlo a un passo dalla salvezza, se non fosse intervenuto qualcun altro a capovolgere l’intricata trattativa.
La “pista Caetani” del caso Moro prese forma da diverse circostanze, che la resero di grande interesse: il figlio di Igor Markevitch, Edward, nato dal suo primo matrimonio con Kira Nijisky, aveva sposato Claudia Vesselinof, figlia di Jordan Vesselinof, nazista bulgaro legato al leader del Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli, il terrorista più oltranzista dell’atlantismo e il più legato ai nostri servizi, rendendo Igor, fantomatico mediatore, il consuocero di un importante agente anticomunista; poi c’è il ritrovamento di un rapporto, in base al quale si apprese che, Moro ancora vivo, due agenti del Sismi (il nostro servizio di informazioni militari), Antonio Ruvolo e Giuseppe Corrado, su ordine del generale Domenico Cogliandro, andarono a cercare l’illustre ostaggio bussando proprio alla porta di Palazzo Caetani e, qualche giorno dopo, a quella della casa della famiglia a Ninfa, e poi in quel di Sermoneta.
Come che sia, la pista morì nelle centinaia di fogli informativi raccolti sulla nobile famiglia, di cui rimase il nome come uno dei luoghi simbolici dei cinquantacinque giorni. Una via a metà tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, si è sempre detto: una strada che finisce per diventare non già il luogo sensibile dell’intelligence di mezzo mondo, com’era, ma la rappresentazione letteraria della morte di Moro. Fu “La Stampa”, il giorno dopo la fine del sequestro, a scrivere che quella via era proprio a metà tra gli uni e gli altri, monito sinistro contro ogni compromesso (storico o non). Così passò l’idea. Certamente nessuno, però, ha mai potuto immaginare Mario Moretti, già alle prese con un disastroso sequestro di cui non aveva più controllato nulla, misurare la distanza tra le sedi del Pci e della Dc per scegliere il luogo in cui lasciare il corpo di Moro: un Moretti alle prese con il simbolico in quei minuti concitati non ci sta proprio, e, del resto, egli si è assunto la paternità di questa idea geniale (in senso proprio, vista la forza con cui si è incuneata nelle menti) con due parole secche e sbrigative: “Quando lo hai visto l’ultima volta?” – “Quando è morto. E lo trasportammo in via Caetani” (libro intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Brigate rosse, Mondadori, Milano, 2007, p. 165).
Oggi dunque De Rita rivitalizza la pista Caetani, con parole che hanno la forza di un “oligarca” che sa, che è immerso in una “dimensione orizzontale [che] ha bisogno di un alone di mistero” e che, da tale latitudine, dice sostanzialmente: le Br con via Caetani non c’entrano. Fa riferimento al ruolo di un ambiente ostile ai Caetani – i quali volevano salvare Moro – che ha la forza di far saltare l’operazione di laboriosa cucitura – l’unica fu quella gestita, appunto, dal Vaticano –, e poi la sfrontatezza di lasciare lì il cadavere, davanti alla loro importante casa, come avvertimento per il futuro. Fa entrare in gioco un “soggetto terzo”, di cui in parte si possono forse delineare i contorni dalla frase successiva, dove troviamo il secondo e ancor più intrigante concetto. Dice l’intervistato: “Nessuno mi leva dalla testa che nel delitto Moro ci fosse molto più fascismo che comunismo. Che ci fosse un rigurgito d’anteguerra. Una sorta di qualunquismo antiamericano”.
Come si vede, il vecchio saggio è misterioso, al limite dell’incomprensibile. Sebbene sussurrato, ma con ferma sicurezza: “nessuno mi toglie dalla testa” suona come un “io so”, e il concetto lascia spazio a interpretazioni di notevole interesse. Nell’anteguerra c’è il regime fascista, e poi ci sono quei reduci portati nella Repubblica grazie soprattutto al lucido disegno di usarli per combattere il nemico comunista: un progetto che si rese concreto con la costruzione di reti e organismi operativi, tra i quali si può ricordare l’Anello, gestito da un vecchio arnese di Salò, Adalberto Titta. L’Anello entrò nel caso Moro attraverso il suo “cappellano”, padre Enrico Zucca, religioso ma più agente segreto, che sicuramente si mobilitò accanto a Paolo VI per raccogliere il denaro del riscatto. Padre Zucca armò una violentissima polemica contro Giulio Andreotti, una figura di riferimento per gli ambienti dell’Anello, denunciando la sua inerzia con due interviste incredibilmente dure, rilasciate all’“Espresso” a ridosso del maggio 1978. Morì subito dopo. Che siano lì quei “rigurgiti” dell’anteguerra, una sorta di “qualunquismo antiamericano”, riferibile non all’antiamericanismo in chiave contemporanea ma ad ambienti interni all’estremismo atlantista – diversi da quelli “buoni” dei Caetani, per intenderci: aree e individui rozzi interpreti di un sequestro complesso. Proprio come sono rozzi oggi quegli eredi affamati di potere nel capire una realtà ben più complessa di loro.
Di più non sappiamo dire, possiamo solo sperare che il vecchio De Rita vorrà dirci di più. Perché bisogna sempre ascoltare un “oligarca”.