Il discorso del premier ungherese Orbán, davanti alla plenaria di Strasburgo, il 9 ottobre, è stato senz’altro uno dei momenti memorabili della storia del parlamento europeo. Presentando le priorità della presidenza di turno ungherese del Consiglio Ue, Orbán ha cercato di essere convincente come leader europeo, annunciando anche delle proposte per affrontare e cercare di risolvere alcuni dei problemi maggiori, secondo lui, dell’Unione oggi. Nella sua presentazione, Orbán ha menzionato solo una volta, all’inizio, la guerra russa in Ucraina, limitandosi a dire che è uno dei conflitti in corso, con quelli in Medio Oriente e in Africa, che comportano “un rischio di escalation”.
È evidente la scelta di evitare di entrare in un tema che per lui rappresenta il punto di maggiore divergenza sia con la Commissione sia con tutti gli altri Stati membri, come si è visto dopo la sua controversa visita al presidente russo Putin, in luglio, quando aveva appena assunto la presidenza semestrale di turno del Consiglio Ue. Una “missione” sconfessata dagli altri governi e declassata a iniziativa personale. Il premier ungherese ha dato molto spazio, invece, anzitutto alla questione della competitività dell’economia europea in drammatico calo (come evidenziato dal rapporto di Mario Draghi: vedi qui), con un forte accento posto sulle conseguenze negative, a suo dire, dello sforzo dell’Unione per affrancarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia (che ha causato un rincaro dei prezzi fortemente penalizzante per l’industria), e della transizione ecologica non accompagnata da un’adeguata politica industriale (e perciò non in grado di mantenere le promesse di creare nuovi posti di lavoro). Orbán ha annunciato, a questo proposito, che proporrà al vertice informale dei capi di Stato e di governo dell’Unione, che si terrà a Budapest l’8 novembre, un nuovo “patto sulla competitività”.
L’altro grande problema non risolto dell’Unione europea, secondo Orbán, è naturalmente quello che ha definito come “il fallimento della politica europea dell’immigrazione e dell’asilo”. Qui il premier ungherese non ha neanche menzionato il nuovo Patto Ue sull’immigrazione e l’asilo, approvato alla fine della scorsa legislatura europea, e non ancora entrato in applicazione, dando per scontato, evidentemente, che non funzionerà. “Dal 2015 – ha detto – abbiamo visto molte iniziative sull’immigrazione: progetti, proposte, pacchetti, ci sono state molte speranze, ma si sono dimostrati tutti senza successo. E c’è una ragione per questo, credetemi: senza la creazione di hotspot esterni non potremo tutelare l’Unione europea dall’immigrazione clandestina. Una volta che facciamo entrare qualcuno non potremo più rimandarlo indietro, sia che abbia diritto di soggiorno, sia che non ce l’abbia. C’è solo una soluzione: far entrare sul territorio dell’Unione europea soltanto coloro che hanno già ricevuto l’autorizzazione a entrarvi. Qualsiasi altra soluzione, francamente, è un’illusione”. “Non ci inganniamo: oggi il sistema migratorio e di asilo dell’Unione europea non funziona. E in Europa l’immigrazione clandestina sta alimentando l’antisemitismo, la violenza contro le donne, e l’omofobia”. Di fronte alle proteste della sinistra dell’aula, il premier ungherese ha ripetuto quest’ultima frase, aggiungendo: “Che vi piaccia o no questi sono i fatti”.
La soluzione degli hotspot esterni, perorata da Orbán, è quella della cosiddetta “esternalizzazione” della gestione dell’immigrazione irregolare, molto vicina al modello prospettato dall’accordo tra l’Italia e l’Albania, e non lontana da un altro modello ancora più radicale, quello progettato – ma mai realizzato – dal governo conservatore britannico, che intendeva deportare tutti i migranti irregolari in Ruanda, per esaminare là le loro domande di asilo.
Orbán sa bene, inoltre, di non essere isolato tra i governi dell’Unione su questo punto. Nel maggio scorso, quindici Stati membri hanno chiesto, con una lettera alla Commissione, di lavorare a delle “nuove soluzioni per affrontare l’immigrazione irregolare” verso l’Europa. I quindici Paesi (Danimarca, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Grecia, Italia, Cipro, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Austria, Polonia, Romania e Finlandia) sostengono in sostanza di lavorare a una “potenziale cooperazione con Paesi terzi sui meccanismi di centri di rimpatrio (return hub, ndr), dove i migranti da rimpatriare potrebbero essere trasferiti, in attesa del loro allontanamento definitivo”. La lettera dei quindici, che fa esplicitamente riferimento a modelli ispirati all’accordo tra l’Unione europea e la Turchia, e al protocollo d’intesa con la Tunisia, esorta la Commissione a lavorare a soluzioni che mirino a “individuare, intercettare o, in caso di difficoltà, soccorrere i migranti in alto mare e condurli in un luogo sicuro prestabilito in un Paese partner al di fuori dell’Unione”, con un riferimento esplicito, in questo caso, al modello del protocollo Italia-Albania.
Orbán ha poi parlato dei problemi crescenti che sta avendo lo spazio di libera circolazione delle persone di Schengen, con ormai nove Stati membri che hanno reintrodotto i controlli alle frontiere interne. Il premier ungherese ha proposto di creare e istituzionalizzare, con incontri regolari, un vertice dei capi di Stato e di governo dell’area Schengen, sulla falsariga di quanto avvenne nel 2008 con l’Eurosummit.
L’intervento in plenaria della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, seguito immediatamente alla presentazione di Orbán (non senza che gli eurodeputati della sinistra intonassero l’inno partigiano “Bella ciao” in italiano), è stato un attacco mai visto tra i vertici delle istituzioni europee, con accuse durissime al presidente di turno del Consiglio Ue. Innanzitutto, von der Leyen ha rimproverato a Orbán le sue note posizioni sull’Ucraina, anche se lui nella sua presentazione non le aveva menzionate. Il premier ungherese – ha accusato in sostanza von der Leyen – considera che la responsabilità dell’invasione russa in Ucraina vada attribuita agli ucraini che non vogliono arrendersi. “C’è ancora qualcuno che attribuisce la colpa di questa guerra non all’invasore, ma a chi è stato invaso. Non alla brama di potere di Putin, ma alla sete di libertà dell’Ucraina. Vorrei chiedere a costoro: darebbero mai la colpa agli ungheresi per l’invasione sovietica del 1956?” – ha chiesto la presidente della Commissione, aggiungendo che “in nessuna lingua europea pace significa resa”.
Nella sua replica, Orbán ha dato una risposta categorica a von der Leyen, ma poco convincente perché non argomentata: “Io rifiuto decisamente – ha sottolineato – quello che lei diceva: qualsiasi analogia tra quello che hanno fatto i combattenti per la libertà del 1956 in Ungheria e quello che succede adesso in Ucraina è sbagliata. È assolutamente un errore paragonare queste due cose, che non hanno nulla a che vedere, ed è un’umiliazione per i patrioti ungheresi. La lotta per la libertà in Ungheria non può essere comparata a questo”. Il premier ungherese ha poi osservato che “anche grazie alla presidenza della Commissione, l’Unione europea, in modo sconsiderato, sulla base di dati sbagliati e con una strategia sbagliata, è intervenuta in questa guerra (…). Se continuiamo su questa strada perderemo (…). Per questo io propongo di schierarci piuttosto al fianco della pace e del cessate il fuoco, di una strategia diplomatica”.
Von der Leyen ha attaccato Orbán anche su altri punti, accusando l’Ungheria di non rispettare le regole del mercato unico, perché discrimina le imprese degli altri Paesi dell’Unione, e perché avrebbe voluto che questa restasse dipendente dalle energie fossili russe. Il governo ungherese – ha aggiunto – vuole più sicurezza, vuole fermare l’immigrazione illegale, ma poi libera, prima che scontino la pena, trafficanti e contrabbandieri condannati, fa entrare in Ungheria, e quindi nell’Unione, cittadini russi, concedendo loro dei visti senza controlli, e permette persino operazioni della polizia cinese nel suo territorio.
Quella che è mancata, tuttavia, nell’intervento della presidente della Commissione, è stata una risposta altrettanto chiara e dura a Orbán sulla questione degli hotspot esterni (o degli “hub di rimpatrio”). Von der Leyen si è limitata a rilevare che ora c’è il Patto su immigrazione e asilo che va attuato.
Una risposta – ancorché ambigua – riguardo alle proposte di esternalizzazione della gestione dei migranti l’ha data, invece, la commissaria agli Affari interni, la socialdemocratica svedese Ylva Johansson, il giorno seguente, mercoledì 10 ottobre, alla fine del Consiglio per gli Affari interni dell’Unione a Lussemburgo. “Non c’è alcuna proposta da parte della Commissione, e nemmeno da parte di nessun altro, in merito” agli hotspot esterni. Ma – ha riconosciuto la commissaria – “c’è una discussione in corso su come incrementare i rimpatri, e questa è una discussione importante. Abbiamo avuto un dibattito molto interessante su questo punto” durante il pranzo di lavoro dei ministri dell’Interno del Consiglio Ue, ha riferito. “È anche previsto nelle linee guida della presidente von der Leyen – ha ricordato Johansson – che la prossima Commissione prenderà l’iniziativa di una proposta per aumentare i rimpatri. Questo è importante”, perché nel Patto “non è stata adottata una riformulazione della direttiva Ue sui rimpatri, e quindi ora la questione va affrontata”, ha concluso la commissaria.