
Del Rapporto Draghi sulla competitività in Europa si è parlato molto sui media e si moltiplicano i giudizi politici generali, ma dei contenuti si è discusso ancora poco. Per non rimanere anche noi sulla superficie, abbiamo intenzione di approfondire le questioni principali e valutare le soluzioni proposte. Abbiamo già iniziato a farlo con un editoriale di Michele Mezza sugli aspetti relativi alla tecnologia e in particolare all’intelligenza artificiale (vedi qui). Oggi proponiamo questa intervista all’economista Maurizio Franzini, professore emerito di Politica economica presso “La Sapienza” di Roma, che è stato anche presidente facente funzioni dell’Istat, tra l’agosto del 2018 e il febbraio 2019.
In questi giorni si parla molto della relazione che Mario Draghi ha consegnato alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e che sarà presentata al parlamento europeo. Molti i commenti sulla stampa. I giudizi sono discordanti. Qual è secondo lei il messaggio principale?
Credo che il messaggio principale del Rapporto Draghi sia che – se l’Unione europea non riuscirà a procedere in modo più coordinato, tra gli Stati membri e tra le varie politiche – andrà incontro a seri problemi. Il mancato coordinamento implica, tra l’altro e forse soprattutto, cattivo utilizzo delle risorse a causa di sprechi, duplicazioni e scelte nazionali tra loro non coerenti. E dunque impedisce di valorizzare i vantaggi che può dare lo stare assieme, tra i quali vi è quello di poter ottenere risultati migliori rispetto ad alcuni beni comuni e pubblici, come la conoscenza, perché la ricerca dà, appunto, risultati migliori se le risorse a essa destinate, invece di essere frammentate tra tanti Paesi, sono concentrate a livello europeo.
Maggior coordinamento significa anche maggiore integrazione e complementarità tra le diverse politiche. Non soltanto con riferimento all’antico problema riguardante la politica monetaria (gestita dalla Banca centrale europea, per i Paesi che utilizzano l’euro) e la politica fiscale (decisa dagli Stati nazionali nella cornice delle regole fiscali europee) ma anche rispetto a politiche prominenti nel Rapporto Draghi, come le politiche industriali, per la competitività e le politiche commerciali. Da ciò dipende anche la complessiva efficacia di queste politiche.
Di fronte al difetto di coordinamento, una soluzione radicale sarebbe il passaggio a un’Europa federale, ma si tratta di un’opzione che non è a portata di mano. Le soluzioni praticabili sono un rafforzamento del coordinamento su alcune specifiche questioni che sollevano meno conflitti tra i membri dell’Unione, ed eventualmente un maggior ricorso alle decisioni a maggioranza che in vario modo e in diversi ambiti sono possibili senza dover rivedere i trattati.
Dalle analisi di Draghi emerge un quadro molto preoccupante dell’Europa, sia dal punto di vista della competitività economica con gli altri grandi player mondiali (in primis la Cina), sia da quello degli assetti istituzionali e burocratici che vengono indicati tra le principali cause dei ritardi. Quali sono i veri mali dell’Europa? Draghi, per esempio, non fa nessun accenno al periodo duro dell’austerità, mentre rivendica all’Europa un approccio positivo e socialmente sostenibile ai tempi della pandemia. Dobbiamo interpretarla come un’autocritica delle politiche neoliberiste?
Tra i mali dell’Europa, c’è certamente il mancato coordinamento di cui ho detto, ma c’è anche l’adesione ad alcune idee economiche che si sono rivelate fallaci, come l’austerità espansiva, cioè l’idea che la severità nelle politiche di bilancio sarebbe stata benefica per la crescita. In realtà, dietro queste idee, vi sono anche problemi di reciproca sfiducia tra gli Stati membri e vari conflitti di interessi non soltanto tra Paesi ma tra gruppi transnazionali.
Quanto al giudizio positivo sulle politiche post-pandemia, quindi in particolare sul programma Next Generation European Union (NextGenerationEU), credo che a determinarlo concorra il fatto che esse sono state rese possibili da un forte coordinamento a livello europeo, quel coordinamento (soprattutto per quel che riguarda la responsabilità dell’Europa e non dei singoli Stati nella raccolta dei fondi e nella individuazione di alcuni investimenti strategici) di cui Draghi lamenta in generale la mancanza.
Ma naturalmente quelle politiche richiedono, per la loro realizzazione, un forte coinvolgimento dei soggetti pubblici a diversi livelli, che è un elemento centrale nella “filosofia” del Rapporto Draghi e in questo senso, ma non soltanto in questo senso, si può dire che non siamo di fronte a un Rapporto ispirato alle più conservatrici idee neoliberiste. Ma, naturalmente, questo non equivale a dire che il rapporto sia risolutivo rispetto a complesse questioni di equilibrio, pur riconosciute, tra funzionamento dei mercati e crescita delle dimensioni di impresa, da un lato, e inclusione sociale e disuguaglianze dall’altro.
Un punto che fa discutere è quello relativo alla cifra del fabbisogno finanziario necessario per raggiungere gli obiettivi della Relazione per tentare di riavviare la macchina europea che sembra inceppata. Lo stesso Draghi ha parlato della necessità di mettere in gioco tra i 750 e gli 800 miliardi di euro l’anno, pari al 4-4,7% del Pil Ue, quattro volte le risorse messe in campo dal Piano Marshall dopo la Seconda guerra mondiale. Dove si troveranno tutte queste risorse senza intaccare (e riformare) i meccanismi di imposizione fiscale? Tra l’altro, l’immagine di un’Europa “matrigna” che sa solo chiedere sacrifici ai cittadini è uno dei cavalli di battaglia dei nazionalisti.
Le fonti possono essere diverse e non soltanto di tipo fiscale. C’è, anzitutto, la possibilità di ricorso ai mercati finanziari non da parte dei singoli Stati ma della Unione europea ripetendo l’esperienza del Next Generation EU, con possibili varianti, di cui in passato si è anche discusso. Draghi si è più volte espresso a favore di questa eventualità che, però, trova ben note resistenze in Europa, soprattutto da parte della Germania. C’è poi la possibilità di convogliare sui mercati europei risorse finanziarie private (e quindi anche il risparmio) ora destinate altrove, in particolare al mercato finanziario americano. Farlo non sarà facile, ma è ragionevole tentare.
Ci sono ancora le misure fiscali, non limitate alla tassazione dei redditi (o, come sarebbe preferibile, dei patrimoni). Si possono introdurre ed estendere tasse e imposte che finanzino direttamente il bilancio dell’Unione, dando ampia attuazione a strumenti di cui si è parlato molto in passato. Il riferimento è, per esempio, a imposte e tasse dirette a limitare le transazioni finanziarie di carattere speculativo (la cosiddetta Tobin tax) oppure dirette a penalizzare chi utilizza tecniche di produzione o anche stili di consumo dannosi per l’ambiente. E c’è infine la possibilità, che è quasi una necessità, di porre fine alla gigantesca elusione fiscale resa possibile dall’esistenza all’interno della stessa Unione di attraenti paradisi fiscali. Alcune iniziative in atto a livello globale (come quella sulla tassazione delle multinazionali) potrebbero facilitare il raggiungimento di questo obiettivo.
Ma è evidente che ciascuna di queste misure oggi ha i suoi nemici, diversamente agguerriti. Il rapporto Draghi non potrà da solo cambiare questo stato di cose, ma di certo fornisce argomenti per mostrare i danni che possono derivare dal persistere nelle politiche oggi prevalenti, rendendo più difficile la loro difesa.
Un capitolo molto importante, che sembra anche fare da collante attraversando un po’ tutta la relazione è quello relativo ai costi dell’energia. Nella relazione si propone si proseguire decisamente sulla strada delle tecnologie sostenibili, senza però trascurare altre fonti (nucleare compreso). Se si sceglie davvero la strada della transizione non si dovrebbe essere più coraggiosi abbandonando i vecchi paradigmi? E quanto conterà nelle scelte politiche dell’Europa la netta opposizione del fronte conservatore che vede nell’ambientalismo il nemico principale?
Sulla transizione ecologica ed energetica, ovviamente rilevante per il costo dell’energia sebbene non nel brevissimo periodo, il Rapporto Draghi prende una posizione molto chiara e di forte contrasto con quanti considerano quella transizione una specie di colpo mortale per le prospettive di crescita economica europea. In linea con numerosi studi che documentano questo punto, si sostiene, invece, che le politiche ambientali richieste per la transizione aprono nuove e importanti prospettive di crescita economica. Per coglierle, sono necessari ingenti investimenti anche per affermare (o in alcuni casi recuperare, visti in particolare i progressi della Cina) la leadership tecnologica europea. Nel Rapporto si propone anche un “piano congiunto per la decarbonizzazione e la competitività”, che si ricollega a una recente proposta della Commissione europea, il Clean Industrial Deal, il cui scopo è di rafforzare il lato industriale del Green Deal europeo, oggetto di numerose critiche.
È importante tenere presente che l’opposizione alla transizione non viene solo dagli strenui e interessati difensori del fossile; viene anche da chi teme di perdere il proprio lavoro, che per moltissimi rientra nella categoria dei lavori “marroni”, cioè inquinanti, mentre si dovrebbe andare verso i lavori “verdi”, cioè puliti. Per contrastare queste opposizioni, che finiscono per avere un peso politico, occorre adottare misure di protezione dei redditi e di riconversione delle competenze. Quando il rapporto sottolinea l’importanza dell’inclusione sociale certamente fa riferimento anche a questi tipi di problemi, che mostrano gli stretti legami tra la questione ambientale e quella sociale. Tutto ciò richiede, naturalmente, appropriate iniziative politiche che dovrebbero essere di facile attuazione se, appunto, si dà valore alla giustizia sociale e ambientale.
Molta importanza, nella relazione, viene riservata alla battaglia mondiale sulle tecnologie legate alla “potenza di calcolo”. Dalle notizie fornite dallo stesso Draghi sembra che la gara per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale sia ormai irrimediabilmente persa a favore dei colossi statunitensi e dell’avanzata cinese. I ritardi accumulati sono ormai insuperabili?
I dati documentano il ritardo dell’Europa nell’intelligenza artificiale. Nel 2023, gli investimenti privati in questo campo si stima siano stati di circa 11 miliardi di dollari (includendo il Regno Unito), mentre il dato equivalente per gli Stati Uniti è stato di 67 miliardi. Per quello che riguarda i brevetti nel campo dell’intelligenza artificiale, l’Europa ne ha meno di 5.000 contro i 110.000 e più della Cina e gli oltre 60.000 degli Stati Uniti. Uno dei problemi principali sembra essere, per l’Europa, l’insufficienza del capitale privato investito nelle imprese start-up di intelligenza artificiale, ciò che rende necessario considerare la possibilità di reperire risorse all’interno dello stesso bilancio europeo.
Meno problematica, anche se decisamente migliorabile, sembra essere la situazione relativa all’altro essenziale fattore, cioè il capitale umano. Una prova in tal senso viene dal fatto che alcune delle big tech, impegnate anche nella ricerca sull’intelligenza artificiale, abbiano in Europa, e anche in Italia, i loro centri per le attività di ricerca.
Va anche segnalato che, a gennaio 2024, la Commissione ha lanciato un pacchetto sull’innovazione dell’intelligenza artificiale (Shaping Europe’s Digital Future: Strategies for Data and AI) che comprende diverse misure per sostenere le startup e le piccole e medie imprese europee in uno sviluppo dell’intelligenza artificiale che rispetti le normative e i valori dell’Unione. E quello del ruolo della regolamentazione è un altro tema rilevante, che viene spesso menzionato come causa dei ritardi dell’Unione, e anche nel Rapporto si fa riferimento – in generale – all’eccesso di regolazione come problema europeo. Ma in questo caso appare davvero necessario disporre di una regolazione che limiti i rischi enormi associati all’intelligenza artificiale, senza assegnare valore assoluto alla competizione. Farlo, sostenendo comunque gli investimenti, è la vera sfida.
Un ulteriore problema potrebbe essere quello della difficoltà ad affermarsi, in quanto ritardatari, in un mercato dominato da imprese di successo. Da questo punto di vista, si può citare un suggerimento presente nel Rapporto, e cioè l’adozione di misure di protezione, che permettano di affermarsi e crescere a imprese europee dotate di capacità ma svantaggiate dal fatto di doversi misurare con imprese partite prima. È un vecchio e ben noto argomento (noto come quello delle “industrie nascenti”) di giustificazione delle misure protezionistiche che il rapporto sembra far proprio.
Per finire, arrivando a una sintesi generale, quali ritiene che siano i principali punti di forza e le eventuali debolezze del Rapporto Draghi?
È un documento estremamente informato e di grande rigore nell’individuare e presentare i principali problemi dell’Europa. Indica anche, rispetto a molti di essi, le strade da seguire per tentare di darvi soluzione; la cornice che contiene quelle strade è, come si è detto, il più stretto e più forte coordinamento tra politiche e tra Stati. Difficilmente si può dissentire da questo punto essenziale. Si può aggiungere, in tema di coordinamento, che sulla questione cruciale del cambiamento climatico per avere successo è necessario coordinarsi anche con gli altri Paesi in particolare Cina e Stati Uniti, e su questo non sembra che il rapporto si soffermi.
Vi sono poi altri problemi molto rilevanti. Uno di essi, forse il più rilevante, è il seguente: le politiche industriali e per le innovazioni suggerite dal rapporto possono facilmente condurre al moltiplicarsi delle dimensioni delle imprese e a creare situazione di monopolio nei mercati, che non sono prive di implicazioni negative sul piano delle disuguaglianze e dell’inclusione sociale. Il Rapporto fa riferimento, più o meno esplicito, a questi problemi, senza approfondirli e senza suggerire soluzioni che comunque non sono facili. Occorrono, per dirla in termini essenziali, misure che limitino il potere che indebolisce il lavoro all’interno delle imprese monopolistiche; misure che limitino il potere di queste ultime nei mercati e anche nella sfera politica. In breve, misure che mettano la democrazia economica e politica al riparo da tale potere. Questa è forse una delle sfide più severe dei nostri tempi, ai quali l’Europa potrebbe sforzarsi di dare una risposta originale. Ma sarebbe già molto se le discussioni sul rapporto Draghi, che pure non affronta questo problema, riuscissero a rendere più consapevoli della necessità di affrontarlo.