Marco Revelli, nella sua lunga storia di intellettuale e documentatore delle vicissitudini della sinistra italiana, ha sempre avuto un’aura di pacata affabilità, anche nelle contrapposizioni più roventi. Una lucida dolcezza, quella che caratterizza il suo sguardo, che si incrocia nei passaggi più complessi di quella particolare famiglia politica che è specificamente la sinistra torinese. La culla dei grandi partiti operai, sulla scia della grande fabbrica automobilistica, ha indotto – da Gramsci a Gobetti, da Bobbio a Foa, e ancora da Novelli a Bertinotti – una società intellettuale potentemente immersa nei processi di trasformazione socio-industriale.
Revelli, nella sua duplice veste di sensibile sociologo e appassionato militante, è stato testimonial più che testimone: un rappresentante di questa evoluzione tecnologica e culturale che ha selezionato la specie della sinistra sul piano antropologico. E la sua preparazione sociologica permette anche di pretendere da lui quello che non si può chiedere ai dirigenti di quella sinistra idealista e politicista che consideravano i fatti sociali pericolose deviazioni dall’alta strategia, come affermava Lukács. Per questo il suo ultimo libro (Questa sinistra inspiegabile a mia figlia edito da Einaudi) è un’utile occasione per ragionare sul bilancio che ci propone su entrambi i versanti della sua identità: sociologo e militante.
L’artificio letterario non è inedito – un dialogo con la figlia che spinge in territori inediti e, per lui, ancora incomprensibili – e, nelle sue mani, risulta efficace per legare il lettore. Inevitabile, infatti, per molti di noi, l’identificazione con la figura di un padre che ha speso tutta la vita decantando la sinistra, che si sente chiedere da un figlio che non riesce a incontrarla: ma di cosa hai parlato nella tua vita e oggi dov’è? Irresistibile la tentazione di sovrapporsi in ogni passaggio, combinando i ricordi dell’autore con i propri, le sue ragioni con quelle che ognuno di noi potrebbe usare per parlare al figlio.
Certo, Revelli ha in più – rispetto al sottoscritto, per esempio – il titolo di essere stato non solo militante ma autore, fabbricatore di culture e opinioni. Dunque ha buone ragioni, la figlia, per chiedergli: ma com’è possibile che non avete visto che stavano arrivando, tanto per citare una metafora che va di moda oggi? Domande che da decenni rimangono sospese nell’empireo di quella generazione, che ricorda troppo e elabora poco su quanto è accaduto. Com’è possibile che non ti sei accorto che già negli anni Ottanta i giovani operai ti annunciavano la fuga dal lavoro e l’uso del precariato come via di libertà? – gli chiede a un certo punto, mentre Revelli snocciola le sue inchieste sul campo nelle strade di Torino, quarant’anni fa, davanti ai cancelli delle fabbriche, dove oggi, esattamente nelle stesse particelle territoriali di allora, non si producono più auto, ma si discute di cucina e si vendono libri.
È forse proprio questa bellicosa domanda il baricentro del libro: quanto è accaduto, per quanto sorprendente, era annunciato, persino programmato in quel conseguente determinismo per cui, se cambia la base produttiva di un territorio, mutano le sue coordinate istituzionali. Era scritto nel passaggio fra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio Ottanta, diciamo fra l’assassinio di Moro e la sconfitta alla Fiat. Come non potevate vedere, sullo sfondo, il disancoramento dal tessuto sociale delle culture collettive e solidariste, con il drastico ridimensionamento dell’influenza politica della sinistra, anche nei luoghi che sembravano eterne roccaforti, come la cintura torinese o la Stalingrado d’Italia, come era soprannominata Sesto San Giovanni, a ridosso di Milano? Luoghi dove si andava diffondendo gradualmente, con il rattrappirsi delle realtà industriali di massa, il pulviscolare dell’individualismo terziario.
I dati che Revelli onestamente ammette di avere raccolto, dopo il tonfo del 1980, assomigliano terribilmente alle ultime rilevazioni sulla disaffezione ai lavori degli ultimi anni. Il lavoro non è un valore ma un castigo da sfuggire, ed è questa la base materiale che rende l’automazione un processo sociale, e non un’imposizione padronale. Ha un intendimento speculativo, serve a indebolire la contrattualità sindacale, riduce costi e ingombri gestionali – ma raccoglie anche l’ambizione di chi, già ai tempi della centralità operaia, gli veniva da vomitare ogni mattina quando prendeva posto alla catena di montaggio.
Revelli si rifugia nella macro-politica: le lotte studentesche, la liberazione dei modi di vivere, i manicomi aperti, il divorzio, e poi la grande controffensiva del capitale, con l’incontrovertibilità del dollaro, nel 1971, e ancora la finanziarizzazione del capitalismo, nel 1979, e poi il fatidico 1989, con il Muro che ci crolla addosso, e l’ammissione che persino Breznev rimane l’attore di un sogno che non abbiamo più sostituito: il lavoro che governa.
Ma l’89 è solo Berlino? Qui ci si accorge che il libro è attraversato da un convitato di pietra, mai citato, nemmeno di sfuggita, neanche dalla severa figlia dell’autore: il digitale.
Ma in tutta questa storia la fabbrica da cosa è sostituita? Un sociologo che batte i marciapiedi avrà incontrato qualcuno con un telefonino in mano? Avrà considerato le modalità di produzione virtuale? Gli saranno caduti gli occhi su una tabella che indica i fatturati dei videogame? Il termine intelligenza artificiale gli suggerirà qualcosa di strutturale o no? I due Revelli, in questo, sembrano iscritti allo stesso partito del Gattopardo: tutto è cambiato per non cambiare niente. Eppure, nella sua ricapitolazione storica, l’autore conferma il proprio originale profilo di intellettuale non omologato alla scuola Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer. Importante, nelle sue rievocazioni, il mito americano. Particolarmente gradita, a chi scrive, la citazione del manifesto di Port Huron (1962), dove la prima associazione degli studenti socialisti americani apre la porta ai due Sessantotto: a quello del free speech, che arriverà in Europa con le musiche di Bob Dylan, per diventare in Italia l’autunno caldo, e a quello del free soft, che scaverà sotto terra, riclassificando modi di vivere e di produrre di miliardi di uomini, che scopriremo solo quattro decenni più tardi.
Seguendo questo filo rosso, scopriremmo che l’89 per qualcuno che oggi ha meno di quarant’anni non indica la caduta del muro di Berlino, ma l’invenzione del web e il dominio egemonico del “capitalismo della sorveglianza”, dato che la sinistra di tutti noi stava ancora chiedendosi perché erano così pessimisti gli operai di Mirafiori, che già nel 1979 annunciavano a Revelli di volere scappare dalla fabbrica.