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Perché votare è importante, nonostante tutto

La differenza tra ieri e oggi nella selezione delle candidature, il “suicidio politico” del mancato accordo elettorale con i 5 Stelle, ma soprattutto le ragioni per cercare di evitare l’astensionismo a sinistra

22 Agosto 2022 Antonio Floridia  1501

La selezione delle candidature è sempre stata, nella storia dei partiti, un momento molto controverso e delicato: The Secret Garden of Politics è il titolo di un libro di qualche anno fa su questo tema. Così come ricorrente è l’immagine delle filled-smoke rooms, in cui si decidono le sorti di questo o quel candidato. Lo spettacolo che ha dato, in questi giorni, il centrosinistra è stato imbarazzante, ma bisogna capire il perché. Che ci siano lotte feroci per definire le candidature e i posti migliori in lista, non è una novità: l’elemento nuovo è, appunto, che oggi tutto accade (fin troppo) alla luce del sole, e non nelle segrete e fumose stanze. Ne deriva così un ulteriore discredito per la politica e i partiti. Il problema non è che siano i vertici dei partiti a decidere: accadeva anche ai tempi delle preferenze, quando spesso le liste erano composte da tre categorie di candidati: a) i “forti” (capicorrente o referenti locali dei capicorrente, nella Dc e nel Psi; o esponenti del gruppo dirigente nazionale nel Pci); b) le “seconde file” o gli “emergenti”, candidati cioè senza concreta possibilità di elezione, ma che volevano contare il proprio pacchetto di preferenze, da far pesare su altri tavoli; e c) i meri “portatori d’acqua”.

Nel Pci accadeva altro: le candidature erano molto discusse nelle sezioni, ma non perché poi decidesse la base; era un’ampia consultazione attraverso cui il gruppo dirigente valutava il grado di consenso e di rappresentatività di una candidatura. Gli organismi dirigenti decidevano non solo i candidati, ma anche quelli che dovevano essere eletti, grazie a una scientifica distribuzione dei voti di preferenza tra le sezioni. E a posteriori si poteva valutare in che misura un dato candidato avesse preso davvero i voti previsti, o ne avesse raccolti di più. Insomma, in forme diverse, i deprecati partiti della “prima Repubblica” vedevano certo delle lotte di potere al proprio interno, ma era la politica a prevalere, la ricerca di una più ampia rappresentatività sociale e territoriale, l’idea di promuovere e premiare dirigenti che avevano dato buona prova di sé, ecc. Oggi, il vero dramma è il vuoto della politica: tutto si riduce ai meccanismi di autoriproduzione del ceto politico, e i partiti diventano meri strumenti per “transitare” nelle istituzioni. Scorrendo alcune cronache locali, in questi giorni, accade di leggere, pressappoco, e senza che ciò susciti una particolare riprovazione, frasi come “il tizio si era fatto eleggere segretario, l’anno corso, proprio perché così sarebbe stato candidato quest’anno”.

Ma tant’è, ora comincia una nuova fase. Naturalmente, l’attenzione si sposta sui sondaggi e sui possibili effetti delle scelte che le varie forze politiche hanno compiuto in queste settimane. Com’è noto, è venuta meno, irresponsabilmente, la possibilità che tutte le forze del centro, del centrosinistra e della sinistra, riuscissero a concordare dei candidati comuni per evitare che la destra possa arrivare a conquistare la quasi totalità dei 147 collegi uninominali della Camera e dei 74 del Senato, e quindi anche sfiorare o superare quella quota dei due terzi che rende possibili modifiche costituzionali senza il ricorso al referendum.

Su questo punto, è nata una significativa discussione sulla reale possibilità che ciò possa davvero accadere. Paolo Barbieri, su queste pagine, giudica questa ipotesi “fantascienza”: non sono d’accordo, la si può giudicare più o meno probabile, ma rientra perfettamente nell’ambito delle cose possibili. Barbieri richiama un’indagine dell’Istituto Cattaneo, pubblicata il 9 agosto, condotta e commentata da Salvatore Vassallo, che in realtà cerca un po’ di edulcorare la crudezza dei dati, che pure non possono essere negati: “Rispetto alla stima precedente” – si legge, ossia rispetto alla stima fatta prima della rottura di Calenda –, “il centrodestra conquisterebbe 19 collegi uninominali in più alla Camera e 9 seggi in più al Senato, arrivando al 61% dei seggi complessivi nel primo caso e al 64% nel secondo”. Insomma, non è proprio rassicurante questa proiezione: siamo lì, e tanto fantascientifica quella prospettiva non è. E il problema non è solo quello della “difesa” della Costituzione, ma di una distorsione profonda della rappresentanza, di un controllo assoluto del parlamento da parte della destra, con riflessi inquietanti su alcuni passaggi istituzionali, come l’elezione dei giudici della Corte costituzionale. Per questo, è stato un suicidio politico non essere riusciti a fare un accordo elettorale che riequilibrasse questa potenziale, gravissima “disproporzionalità” nel rapporto tra voti e seggi. Anche Roberto D’Alimonte, in un articolo sul “Sole 24 ore” del 14 agosto, giudica “irrealistica” l’ipotesi che due terzi dei seggi vadano al centrodestra: e tuttavia, il suo stesso articolo, più prudentemente, si concentra sul fatto che questo “irrealismo” riguarda soprattutto il Senato.

Si dice: il centrosinistra comunque ha un pacchetto sufficiente di collegi sicuri, in Toscana, in Emilia, e nei centri di alcune aree metropolitane: ma ne siamo sicuri? Io conosco bene la realtà della Toscana: ebbene, i collegi “sicuri” per il centrosinistra sono solo tre su nove (Firenze e provincia, Livorno), due sono sicuri per la destra (Lucca e Massa), altri quattro molto incerti (Siena-Grosseto, Arezzo, Pisa e Pistoia-Prato), ma right-swinging, come dicono negli Stati Uniti. Del resto, non è una sorpresa, se è vero che sette capoluoghi di provincia su dieci, in Toscana, sono amministrati dal centrodestra, e che le ultime elezioni regionali sono state sì vinte dal centrosinistra, ma grazie soprattutto al peso demografico dell’area fiorentina.

E anche in Emilia, le cose non sono affatto tranquille: Piacenza, Parma, Ferrara, sono aree in cui il centrodestra è molto competitivo. Insomma, l’impressione, anche da queste prime battute della campagna elettorale, è che – nella migliore delle ipotesi – il Pd e i suoi alleati possano contare al massimo su una decina di collegi, o poco più. E del resto, lo scontro feroce che si è aperto nel Pd sulle candidature è proprio l’espressione delle reali valutazioni che correvano all’interno del partito, tradisce cioè la consapevolezza che di “sicuro” in giro c’era molto poco. Appena saranno pubblicate le liste definitive, guardando i nomi dei candidati, si potrà facilmente individuare il numero di seggi che, al tavolo delle trattative, era stato giudicato “sicuro”.

Insomma, se anche la fatidica soglia dei due terzi non fosse raggiunta (ma si può sempre mettere nel conto un qualche “aiutino” dal “centro”) lo scenario che si prospetta è davvero inquietante. Soprattutto perché il Pd ha acquisito, negli ultimi dieci anni, sempre più un ruolo di partito-istituzione, partito dell’establishment,vocato al governo e al “senso di responsabilità nazionale”: saprà ora imparare a fare il mestiere dell’opposizione? O imploderà definitivamente, una volta venuto meno il collante del potere? Per non parlare, poi, di tutto il resto della sinistra radicale, che vive nella contemplazione delle proprie micro-identità.

A questo punto, sottolineata ancora una volta la scelta sciagurata di non avere provato nemmeno a fare un accordo elettorale (non politico), che per avere un senso doveva comprendere il Movimento 5 Stelle – e ribadita la responsabilità che pesa innanzitutto sul Pd, se non altro perché è il partito più forte di quest’area –, la domanda che ci resta, a questo punto, è la seguente: come possiamo limitare i danni? I vincoli che pone il “rosatellum” (l’impossibilità del voto disgiunto) lasciano pochi margini di scelta all’elettore: se anche si votasse solo il candidato uninominale, questi voti sono comunque ripartiti pro-quota alle liste di sostegno. E se a un elettore piace il candidato X, è costretto a votare il partito Y, che invece mai e poi mai vorrebbe votare.

E allora? La competizione si sposta sul proporzionale, dove vengono comunque assegnati i 5/8 dei seggi. E qui l’unico antidoto, per limitare la valanga della destra, è quello di votare, votare, votare… combattere l’astensionismo: che oggi è sempre più spesso intermittente e asimmetrico, ovvero riguarda settori di volta in volta diversi dell’elettorato, e che oggi potrebbe colpire pesantemente proprio a sinistra, per il messaggio di divisione, di sfiducia, di resa preventiva, di smobilitazione, che il mancato accordo elettorale ha trasmesso. Si voti, dunque, per qualsivoglia tra le liste delle “non-destre”, ma si voti;sperando che tutte riescano a superare la soglia del 3%. È questo, oramai, il solo “voto utile”, non quello che il Pd cerca di motivare per sé con la gara a essere “primo partito”: “primato” del tutto ininfluente. In particolare, si deve sperare che il Movimento 5 Stelle, innanzitutto, riesca a recuperare una parte almeno di tutti quegli elettori che nel 2018 gli regalarono quasi il 33% dei voti. Una metà di quegli elettori, che veniva da destra, a destra è ritornata già alle europee del 2019; ma il resto, che veniva da sinistra, corre il rischio di rifugiarsi nell’astensione. Solo se le “non-destre”, al proporzionale, ottengono un buon risultato, si potrà forse evitare una possibile super-maggioranza della destra.

Nei collegi uninominali, solo in alcuni casi, laddove ci sono situazioni davvero incerte, potrebbe essere “utile” un voto alla coalizione Pd-Si-Verdi, quando potrebbe avere qualche chance di successo: ma questi casi sono davvero pochi; e, soprattutto, agli occhi della gran parte degli elettori, sono ben difficilmente identificabili. Con questi nuovi mega-collegi, mediamente da quattrocentomila (alla Camera) e ottocentomila (al Senato) abitanti, collegi che non sono mai stati sperimentati prima, è davvero difficile (se non per una minoranza di elettori colti e informati) sapere cosa e dove è “utile” votare”. La maggior parte degli elettori usa “scorciatoie cognitive” per decidere il proprio voto: guarda solo al simbolo del partito, e – oggi sempre più – anche al nome del leader; ed è così che si spiega la volatilità delle “passioni” personalistiche: Renzi (ma solo alle europee del 2014), poi Salvini e ora, a quanto sembra, Giorgia Meloni.

Insomma, tempi burrascosi ci aspettano: mi auguro di sbagliarmi, ma temo che sarà difficile fermare questa deriva. E ricostruire, dopo una brutta sconfitta, dopo una sconfitta non dignitosa, sarà ancora più difficile, per la sinistra italiana.

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