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“La Giunta”: un album troppo di famiglia

Il film di Alessandro Scippa, figlio di Antonio, uno dei pilastri delle giunte rosse di Valenzi nella Napoli a cavallo del terremoto del 1980,...

Qualche riflessione sul fenomeno mafioso

Il nostro Guido Ruotolo, in un articolo del 19 luglio 2021, riferisce di un libro pubblicato da Michele Santoro e da lui stesso (vedi qui), che intende offrire una ricostruzione della strage di via D'Amelio, a Palermo, molto diversa da quella diventata nel tempo dominante: non ci sarebbe stato un uomo dei servizi segreti sul luogo dell'attentato a Borsellino, ma un semplice "picciotto" scambiato per un agente. Per conseguenza, gran parte della dietrologia che si è fatta e si va facendo intorno a quel caso (incentrata, com'è noto, sulla scomparsa della famosa "agenda rossa" del magistrato palermitano) sarebbe frutto di fantasia, la strage del 19 luglio 1992 essendo un delitto di mafia, privo di apporti "esterni". Chi scrive non ha particolari elementi di giudizio per sposare una versione dei fatti o un'altra. È fuor di dubbio, però, che nel caso fosse credibile la ricostruzione fornita da Ruotolo e Santoro, basata sulle dichiarazioni a loro rese dal "pentito" Avola, ciò non muterebbe la sostanza, il senso complessivo del discorso circa la mafia come un fenomeno criminale che ha potuto giovarsi, nel corso della storia dell'Italia repubblicana, di una molteplicità di appoggi e collusioni nelle istituzioni e nella politica.

La circostanza che Matteo Messina Denaro sia stato catturato ormai ammalato, al termine di una trentennale latitanza, può servire come una conferma della tesi intorno alla ramificazione dei sostegni di cui godono i boss mafiosi. Potrebbe trattarsi non soltanto, e non principalmente, di un tessuto culturale siciliano che fungerebbe da protezione per un certo ambiente criminale; non sarebbe, cioè, una presunta antropologia locale – l'impasto di arcaismo e modernità tipico del Mezzogiorno d'Italia, con la sua concezione omertosa, familistico-individualista, della vita sociale – alla base delle coperture mafiose, ma qualcosa di più specifico, che attiene alla stessa "storia naturale" del potere in Italia. Siamo in effetti nel Paese delle trame e dei misteri. Nulla di paragonabile, in Europa, alla vicenda italiana: quale altro Paese, per dirne una, ha dovuto subire una minaccia di colpo di Stato fin dall'apertura progressista del primo centrosinistra, negli anni Sessanta, per avere osato mettere in discussione – in particolare con il tentativo di una legge urbanistica sui suoli pubblici – l'assetto proprietario e di potere tradizionale? E dove altro si è mai visto un capo dello Stato (Antonio Segni) coinvolto nell'organizzazione del pre-golpe?

Perché votare è importante, nonostante tutto

La selezione delle candidature è sempre stata, nella storia dei partiti, un momento molto controverso e delicato: The Secret Garden of Politics è il...

Il “no” francese all’estradizione degli ex brigatisti italiani

Si sta concludendo come non poteva che concludersi l’assurda vicenda della richiesta di estradizione alla Francia – a distanza di quaranta o cinquant’anni dai fatti – di un certo numero di ex brigatisti (o appartenenti ad altri gruppi della cosiddetta lotta armata) condannati per gravi reati. In punta di diritto, e l’avevamo in un certo senso preconizzato (vedi qui e qui), era pressoché impossibile che la cosa andasse diversamente. La giustizia francese non si sarebbe piegata al tardivo ghiribizzo del governo italiano in carica, in particolare ai desiderata della zelante ministra della Giustizia. Non è stato neppure considerato il “caso per caso” – né la circostanza che uno dei riparati a Parigi, Giorgio Pietrostefani, condannato per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972, sia in precarie condizioni di salute. No. Il verdetto della Corte francese è stato netto: tutti non estradabili. Leggeremo le motivazioni; intanto è già emerso, però, un riferimento alla contumacia. La Francia ha un ordinamento diverso da quello italiano al riguardo: quando ci sia la comparizione di un imputato precedentemente giudicato in contumacia, il processo va rifatto, mentre nel nostro Paese non è affatto così. E bisogna aggiungere – fu, in definitiva, la ragione della “dottrina Mitterrand” a suo tempo – che i processi per terrorismo sono avvenuti sulla base di una legislazione speciale che dà grandi vantaggi ai pentiti.

Prendiamo Pietrostefani. Il suo accusatore, Leonardo Marino, autoproclamatosi esecutore materiale dell’omicidio Calabresi, insieme con Ovidio Bompressi (che ha poi beneficiato della grazia), non è stato condannato a un bel nulla per via delle dichiarazioni rese; Pietrostefani e Sofri, invece, a pesanti pene come mandanti. Non è in discussione qua la loro colpevolezza o innocenza. La questione concerne la possibile distorsione indotta dalla legislazione sui “collaboratori di giustizia”. Lo sappiamo, essa è anche servita per perseguire i delitti di mafia. Ma nel caso di Pietrostefani (tra parentesi, militante di Lotta continua, cioè non esattamente di un’organizzazione terroristica) è lecito il dubbio che la versione del suo unico accusatore, pur magari veritiera nell’essenziale, abbia coperto le responsabilità di altri per addossare tutte le colpe sui dirigenti del suo gruppo politico. In altre parole, a distanza di cinquant’anni, esiste una verità storica su quell’omicidio; ma, dal punto di vista processuale, si può pensare che si tratti al più di una mezza verità. Sarebbe tuttavia privo di senso anche solo ipotizzare che quel processo possa essere rifatto. Appare quindi giusto il verdetto della Corte francese per il “no” all’estradizione.

De Mita e Berlinguer, convergenze parallele

“Devi intuire dove andrà il disco e non limitarti a seguirlo lì dove si trova, altrimenti nell’hockey non ti troverai mai al posto giusto data la velocità del gioco”. Così Steve Jobs sintetizzava ai suoi collaboratori il senso dell’innovazione digitale. Ciriaco De Mita è stato uno dei pochi politici italiani ad anticipare il disco, ma poi ha sbagliato tutti i tocchi per indirizzarlo. Un destino non dissimile da quello del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, di cui nei giorni in cui è deceduto il dirigente democristiano si celebra il centenario della nascita. Due destini fortemente intrecciati, nelle motivazioni e nella strategia che hanno seguito.

“Bisogna convincere prima la Chiesa, poi gli americani e infine l’elettorato moderato del Sud”. Così De Mita raccontava che gli rispose Aldo Moro, alla fine degli anni Sessanta, quando l’allora giovane e irruento parlamentare irpino lo sollecitava ad accelerare l’apertura a sinistra. Quelle tre categorie sociali – i cattolici, le forze atlantiche e i ceti medi periferici – rimasero il terreno di coltura di quell’incontro, mai realizzato, fra comunisti e democristiani. Berlinguer, nei suoi saggi sul compromesso storico del 1973, ragionava proprio attorno a questi tre scogli: come aggirarli e integrarli nell’alleanza popolare che immaginava?

Un Enrico Berlinguer per tutti e per nessuno

Ognuno fa il suo mestiere. Così, da quando il presidente russo Vladimir Putin ha dato fuoco alle polveri invadendo l’Ucraina, ecco che è arrivato...