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Cile, Svezia e tra qualche giorno l’Italia: una sinistra senza bussola
A Stoccolma, la più gloriosa tradizione socialdemocratica – peraltro rinnovata e modernizzata in questi ultimi anni di governo, con una robusta presenza di ceti innovativi – non sembra reggere all’avanzata della destra populista, dopo che a Santiago anche l’alleanza di un “populismo di sinistra”, reso vitale da una salda tradizione di militanza operaia, ha perso smalto con il referendum costituzionale (vedi qui).
I risultati italiani daranno un’altra versione di una sconfitta seriale: la sinistra sembra non riuscire più a parlare nel Ventunesimo secolo. La dinamica svedese appare proprio esplicita. Al di là della contabilità finale, che potrebbe vedere, sul filo di uno o due seggi, prevalere uno o l’altro degli schieramenti, il dato politico vede il centrosinistra, con la potente socialdemocrazia integrata dall’alleanza di due ali (una di sinistra più radicale e l’altra di centristi più moderati), in affanno rispetto all’offensiva sociale della destra. Più che una proposta, è un sentimento che mette in ombra le singole strategie programmatiche del governo socialdemocratico uscente, ossia l’insoddisfazione e la paura di vedere logorati i propri margini di benessere. Persino quando non ci sono.
Il “mistero” di un Pd votato alla sconfitta
È arcinoto, e su “terzogiornale” ci siamo ritornati più volte, che il Pd ha scelto di “passare” in queste elezioni (come nel gioco delle carte) e di dare partita vinta all’avversario, intenzionato soltanto a misurare l’entità della sconfitta che si profila, soprattutto mediante il giochino del “chi arriva primo” tra Letta e Meloni: risultato del tutto ininfluente ai fini della costruzione di una maggioranza parlamentare, ma che comunque – nel caso di un successo peraltro sempre più improbabile – potrebbe salvare il gruppo dirigente piddino, quando si tratterà di una resa dei conti intorno a una linea politica che, già da ora, appare fallimentare. Si poteva, infatti, perdonare l’avventurismo grillino che, timoroso di perdere ulteriormente voti, ha minato il fulgido percorso del governo Draghi, e proseguire nell’alleanza con i 5 Stelle. Oppure si poteva cercare di mettere insieme una coalizione centrista, con un programma di governo draghiano, e allora bisognava trattare, insieme, con i due improvvisatori Renzi e Calenda. Scartata senza troppe spiegazioni la prima ipotesi e mai risolutamente praticata la seconda (avendo per giunta subìto il rapido voltafaccia di Calenda), la segreteria di Letta vacilla.
Tutto ciò è chiaro. Quello che è più difficile da comprendere è il totale silenzio all’interno del Pd. Lasciamo stare i 5 Stelle, con le loro complicate procedure di consultazione, ancora in parte viziate dall’originario morbo “antipolitico” – ma il Pd? Questo partito ultra-composito, formato da una quantità di componenti e potentati, come mai si è mostrato così passivamente compatto nell’accettare la perdente tattica elettorale del suo segretario? Rispondere a questa domanda sarebbe un’impresa non da poco per dei sociologi della politica, o forse per degli psicologi della politica. Come mai un partito, che si vuole democratico e di centrosinistra, offre così palesemente il fianco alla concreta possibilità di orbanizzazione del Paese?
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Dal Partito democratico al Partito draghiano
Enrico Letta ha certificato nel modo più chiaro che la sigla Pd non indica più quel partito privo di identità, dal nome piuttosto anodino di “democratico”, ma vuol dire Partito draghiano. Ecco l’identità finalmente trovata! Nella democrazia parlamentare italiana, abbiamo visto nel corso degli anni gli esecutivi farsi e disfarsi, cadere in parlamento per pochi voti (da ultimo, il governo Conte 2, che pure piaceva molto al Pd, prima che s’invaghisse dell’ex banchiere centrale), ma sembra che la ferita inferta dai 5 Stelle (che sono stati poi solo una parte del problema), non votando la fiducia a Draghi, sia l’unica insanabile. Tuttavia, non foss’altro che per la composita maggioranza di “unità nazionale” che lo sosteneva e ne determinava il raggio d’azione per forza di cose limitato, come potrebbe quel governo essere l’ideale di un partito che dovrebbe avere un’agenda sua propria? Così Letta butta a mare una proposta politica come quella del “campo largo”, coltivata e fatta crescere da tempo nel suo elettorato, per inseguire un fantasma e tener fermo al puntiglio di un momento.
Soprattutto, però, al già addormentato giovinotto invecchiato risvegliatosi da poco con improvvisi “occhi di tigre”, andrebbe regalato un pallottoliere. Da anni, non da mesi, i sondaggi danno le destre stabilmente al 46-47% dei voti; si può anche immaginare che questa percentuale risulti alla fine più contenuta, ma il successo del cartello delle destre (al netto della loro successiva tenuta interna) appare scontato. E del resto nell’ultimo anno e mezzo, nel Paese, non si sono visti cortei con cartelli inneggianti a Draghi, quanto piuttosto forme di agitazione qualunquistico-reazionaria, a tratti anche accese. A questa situazione come intende rispondere il segretario del Pd? Con una insignificante listarella denominata “Democratici e progressisti”, che riunirebbe l’Articolo uno di Speranza (che non può aspirare a più di un 2%), il Psi di Nencini (postcraxiano, prerenziano, renziano, postrenziano: comunque lo zero virgola qualcosa) e Demos, l’unica “realtà” di qualche significato, sebbene non valutabile in termini di voti, vicina alla Comunità di Sant’Egidio.
Resistenza costituzionale per un’opposizione di governo
Abbiamo dinanzi elezioni che la sinistra non può vincere, ma può forse riuscire a perdere nel modo più indolore possibile, scomponendo le forze e mischiando bene le carte. Al voto del 25 settembre il centrosinistra si presenta pressoché nelle stesse condizioni del 2018, quando le forze di destra segnarono un indubbio risultato positivo, mitigato solo dall’eccezionale e irripetibile affermazione dei 5 Stelle, che comunque confluirono nel governo gialloverde con la Lega. Il Pd si trova dinanzi all’evidenza dell’inaccettabilità di un “campo largo”: sia per la divaricazione strategica, sia per la rottura fra le due forze che la caduta del governo Draghi ha comportato, e anche perché gli stessi grillini sembrano all’inizio di un processo centrifugo che sparpaglierà l’ex gruppo di maggioranza relativa lungo tutto l’arco politico.
Un’eventuale affermazione del partito di Letta, che contende alla Meloni la palma di prima formazione politica del Paese, non cambierebbe di molto il senso generale. Anzi, avrebbe il sapore beffardo di raccogliere voti che non potranno in alcun modo concorrere a una maggioranza di governo. Ammesso, infatti, che le forze del centrosinistra – Pd più cespugli vari che confluiranno nel “campo stretto” – possano arrivare al 25-28 %, persino con un exploit al 30, poco muterebbe circa il futuro inquilino di Palazzo Chigi.