Il richiamo al complotto in cui fu ucciso Rasputin, a San Pietroburgo nel 1916, alla vigilia della rivoluzione bolscevica, è fin troppo facile. Ma certo la tentazione è forte. Alexandr Dugin – il guru del sovranismo del Cremlino, ufficiale di collegamento con i fascismi europei e teorico della rinascita di Mosca come “terza Roma”, bersaglio dell’attentato del 20 agosto, in cui è rimasta uccisa la figlia Darya – ha più di un tratto in comune con il magnetico monaco dei Romanov. Come sempre, la storia è prima tragedia e poi farsa. Dugin scimmiotta il suo modello della corte zarista nella foggia e negli atteggiamenti pacchianamente demoniaci. Il filo conduttore che lega i due eventi, comunque, ci porta alla crisi del regime russo.
L’attentato conferma che si sta sgretolando il muro di controllo e sicurezza che proteggeva i vertici di Mosca. Un logoramento che si avvicina sempre più al nuovo zar del Cremlino. Chiunque sia stato a volere e a realizzare quell’atto terrorista, certamente ha potuto contare su complicità e inerzie che hanno reso vulnerabile uno degli uomini più emblematici della nuova nomenklatura. A questo punto, a quasi sei mesi dall’avvio dell’operazione speciale, come Putin vuole che si definisca la guerra in campo aperto in corso in Ucraina, il quadro sembra davvero problematico per il suo regime. Fermi sul terreno di combattimento, esposti alle azioni di contrattacco che arrivano a colpire in pieno territorio russo, rimettendo in discussione persino il controllo sulla Crimea, i russi stanno misurando la profondità delle sanzioni che, dopo avere colpito direttamente i patrimoni degli oligarchi, ora stanno ridimensionando radicalmente il regime di vita della popolazione. L’inverno alle porte non aiuta certo.
Bisogna trovare una via di uscita. Gli scricchiolii non mancano sul fronte interno. Proteste e diserzioni si fanno sempre più visibili. E soprattutto la classe medio-alta, quella cerchia di borghesia professionale e finanziaria, che dietro le ricchezze degli oligarchi stava scalando la società, si vede improvvisamente retrocessa a ceto medio proletarizzato. Senza sbocchi all’estero, senza possibilità di diversificare carriere e investimenti, senza più ambizioni per i figli.
La tecnocrazia militare è il segmento più sensibile. In prima linea, in Ucraina, dove ha toccato con mano l’impreparazione e la limitatezza della forza d’impatto delle forze russe, si trova ora chiusa in una tenaglia pericolosa. Sul terreno operativo, sempre più vulnerabile, come dimostra l’altissimo numero di ufficiali caduti in battaglia e nelle retrovie, mentre in patria si sente risucchiata in un gorgo di disagi e marginalità.
Le sirene del regime, di cui Dugin è una delle voci più oltranziste, non fanno più presa. Bisogna trovare una via di uscita. La Turchia sta dimostrando come sia possibile, persino a una media potenza, non essere subalterni agli Stati Uniti, e rimanere però nel circuito internazionale più promettente. A Mosca si parla infatti da tempo di una fazione turca del vertice, che preme per trovare una mediazione in Ucraina e giocarsi il trambusto creato a livello di mercati delle materie prime, al fine di rinegoziare con l’Occidente una ricollocazione di rilievo per Mosca nel G8. E la stessa Cina è in difficoltà, alla vigilia del congresso del partito che Xi non potrà celebrare sotto la pressione di una semplice mobilitazione antiamericana, ributtando nelle risaie milioni e milioni di cinesi che, grazie alla via della seta e all’espansione in Europa, stavano trovando la strada per diventare ceto dirigente globale.
In questo gioco estremo, in cui ognuno mette sul tavolo tutta la posta, l’esplosione di Mosca mette in fermento tutte le fazioni. I servizi di sicurezza sanno che, fra loro, ci sono diverse tribù e molte falle. L’esercito si sente senza una copertura adeguata dell’intelligence, e Putin comincia a guardare con diffidenza i suoi collaboratori più stretti. Il tempo non è più un alleato. Qualcuno deve tirare fuori dal cilindro un piccione bianco per ricomporre pacificamente un equilibrio.
In questo domino di poteri oscuri, l’Italia si trova a essere il vaso di coccio fra vasi di ferro. Ma un vaso centrale e rumoroso. Un cambio di cavallo e di alleanze, a palazzo Chigi, darebbe una sponda in più alla Russia. Ma renderebbe Europa e Stati uniti più determinati nella lotta ai sovranismi, spingendo tutte le componenti del quadro economico e politico – dai mercati finanziari, alle agenzie di rating, alle tolleranze dell’Unione europea riguardo al Pnrr – a rendere dura la vita di un governo inaffidabile.
Ma il vero punto nevralgico di tutto questo scenario rimane Washington: se a novembre, nelle elezioni di mid-term, la Casa Bianca subisse un rovescio senz’appello, che aprisse la strada a un ritorno della destra trumpiana, ogni epilogo, anche il più fantasioso, diverrebbe possibile. Se invece Biden, grazie anche alle incertezze e precarietà russo-cinesi, dovesse far valere il patriottismo di potenza, stringendo la maggioranza degli americani attorno al suo Paese, allora si aprirebbe una fase in cui l’eco della bomba che ha ucciso la figlia di Dugin risuonerebbe a lungo in tutte le stanze del Cremlino. Esattamente come accadde nel 1916, con il rantolio di Rasputin.