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L’Argentina sfiora la tragedia
Tutto diventa possibile quando il parossismo s’impadronisce della politica, facendole perdere il senso del limite. Non c’è più necessariamente bisogno di una volontà preordinata per scivolare in un attimo dall’insulto al sangue, dal dramma alla tragedia. L’impulso collettivo può armare la singola follia omicida in un continuum di cui nessuno avverte il precipitare nell’irrimediabile, l’incendio impossibile da domare. Da Sarajevo a Dallas e alla santa romana piazza San Pietro (per restare all’epoca nostra, ma tralasciando il terrorismo come strategia e, visto che siamo in Argentina, come guerra a bassa intensità di gruppi armati e dello Stato), l’attentato personale è l’arma occulta della congiura che si fonde con la fede palingenetica trasformata in nichilismo: da qualsiasi parte provenga riassume l’imperativo aristocratico e nullista del “deve essere come deve essere o cesserà di essere”.
Nelle ore immediatamente seguenti all’attentato contro la vicepresidente argentina Cristina Kirchner, il buio metaforico che avvolge la vicenda è ancora più denso di quello della notte d’inverno australe che avvolge Buenos Aires e il Paese. Né stupirebbe che neppure il tempo riesca comunque a dissiparlo. Non sarebbe la prima volta. Si stenta a credere che la Bersa 380 semiautomatica, giunta a pochi centimetri dalla tempia della controversa leader peronista, non abbia sparato solo per una dimenticanza dell’attentatore, che non aveva messo il proiettile in canna. E il cui identikit, per molti aspetti (l’incerta stabilità psichica, i precedenti specifici),richiama quelli di altri protagonisti di attentati politici tristemente famosi. Il brasiliano Fernando André Sabag Montiel, 35 anni, non risulta essere un militante politico, nessuno lo riconosce. Non appare una famiglia alle spalle. Un mancato assassino arrivato, non si sa da dove, a minacciare una guerra civile.
Mosca, la bomba che potrebbe produrre un’eco
Il richiamo al complotto in cui fu ucciso Rasputin, a San Pietroburgo nel 1916, alla vigilia della rivoluzione bolscevica, è fin troppo facile. Ma certo la tentazione è forte. Alexandr Dugin – il guru del sovranismo del Cremlino, ufficiale di collegamento con i fascismi europei e teorico della rinascita di Mosca come “terza Roma”, bersaglio dell’attentato del 20 agosto, in cui è rimasta uccisa la figlia Darya – ha più di un tratto in comune con il magnetico monaco dei Romanov. Come sempre, la storia è prima tragedia e poi farsa. Dugin scimmiotta il suo modello della corte zarista nella foggia e negli atteggiamenti pacchianamente demoniaci. Il filo conduttore che lega i due eventi, comunque, ci porta alla crisi del regime russo.
L’attentato conferma che si sta sgretolando il muro di controllo e sicurezza che proteggeva i vertici di Mosca. Un logoramento che si avvicina sempre più al nuovo zar del Cremlino. Chiunque sia stato a volere e a realizzare quell’atto terrorista, certamente ha potuto contare su complicità e inerzie che hanno reso vulnerabile uno degli uomini più emblematici della nuova nomenklatura. A questo punto, a quasi sei mesi dall’avvio dell’operazione speciale, come Putin vuole che si definisca la guerra in campo aperto in corso in Ucraina, il quadro sembra davvero problematico per il suo regime. Fermi sul terreno di combattimento, esposti alle azioni di contrattacco che arrivano a colpire in pieno territorio russo, rimettendo in discussione persino il controllo sulla Crimea, i russi stanno misurando la profondità delle sanzioni che, dopo avere colpito direttamente i patrimoni degli oligarchi, ora stanno ridimensionando radicalmente il regime di vita della popolazione. L’inverno alle porte non aiuta certo.