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Congresso Fnsi: il giornalismo fra informazione e informatica

Spostare i mobili sul Titanic che affonda. È stata una delle più frequenti metafore che rimbombavano a Riccione durante il recente congresso della Federazione nazionale della stampa (Fnsi), il sindacato unitario (vedremo ancora per quanto) dei giornalisti. Il clima, per chi lo ricordi, era quello che si respirava alle assemblee dei sindacati dei lavoratori tessili o chimici alla fine degli anni Settanta. Nella grandinata di licenziamenti e ricorso di massa alla cassa integrazione, si litigava per dare una sterzata un po’ più a destra, come capitava con maggiore frequenza, o a sinistra, al gruppo dirigente. Anche a quel tempo, le grandi aree industriali erano meno docili al vertice sindacale, che si appoggiava sul tappeto di piccole e medie aziende delle province, dove le relazioni con il padrone erano meno formali e anche meno trasparenti.

La contabilità congressuale dei giornalisti conferma questa regola: il gruppo dirigente risultato vincente è stato votato da un’alleanza non sempre limpida nelle motivazioni delle associazioni regionali minori, mentre le due aree portanti del mercato editoriale, Milano e Roma, sono all’opposizione. Ma al di là dell’aneddotica congressuale, sarebbe utile guardare ai giornalisti come al laboratorio di una crisi che riguarda settori portanti del ceto medio urbano professionale. Una crisi che sta lacerando il tessuto connettivo della categoria – con lo sfaldamento dell’Inpgi, l’Istituto autonomo previdenziale, risucchiato nel calderone dell’Inps, oppure per le difficoltà che si annunciano alla CaSaGit, la cassa autonoma di assistenza sanitaria – esponendolo a un processo di condizionamento e subordinazione da parte sia dei poteri istituzionali, come più volte minacciato da governo e partiti, sia delle proprietà editoriali, che ormai possono scegliersi  contratti e controparti con cui negoziare.

La crisi e il grigio fatalismo di Visco

Secondo le stime “degli esperti dell’Eurosistema”, la crescita del Pil nel 2023, nel complesso dell’area, “è stata rivista al ribasso di quasi mezzo punto,...

Che cos’è mai l’identità della sinistra?

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Mobilità urbana: taxi, la corsa delle regole

Il nuovo sciopero dei taxi del 20 e 21 luglio è stato revocato. La protesta è sospesa, ma non archiviata in una situazione di caos e...

Crisi o non crisi?

Ora che appare consumato il distacco di Conte e dei suoi dal governo, si può porre la domanda: la crisi è una buona o una cattiva cosa? Risposta: in questo momento, potrebbe essere del tutto indifferente per il Paese. In primo luogo, perché una maggioranza parlamentare per andare avanti ci sarebbe – con un altro governo o con un Draghi bis, o addirittura con questa stessa compagine appena un po’ rimaneggiata –, e tutto dipende dalla volontà delle altre forze politiche, oltre che naturalmente da quella del capo dello Stato. In secondo luogo, perché se questi, dopo avere verificato quale sia l’intenzione prevalente in parlamento, dovesse decidere lo scioglimento delle Camere, si andrebbe a votare in autunno anziché alla fine dell’inverno prossimo: si tratterebbe, dunque, di una fine anticipata della legislatura solo di qualche mese. Il punto spinoso è che si voterebbe con la legge elettorale attuale, che com’è noto non è affatto un granché. Ma è anche vero che l’eventuale iter per approvarne un’altra difficilmente potrebbe mettere capo a un risultato, visti i tempi ravvicinati che ci dividono dalla scadenza naturale della legislatura.

Da un punto di vista politico più generale – e con una particolare attenzione a quella che oggi, per la sua collocazione parlamentare, si chiama “sinistra” – un anticipo delle elezioni potrebbe persino essere una cosa positiva. A vivere in un clima di bonaccia tecnocratico-centrista, una forza come il Pd (per tacere della piccola variante di Articolo uno) appare così profondamente addormentata che una scossa potrebbe avere soltanto un effetto positivo. Le elezioni in autunno spingerebbero a costruire dei programmi, forse addirittura a proporre come presidente del Consiglio qualcuno che non sia Draghi.

Il triste compleanno della Linke

Da tempo in crisi sotto il profilo elettorale, con un vero e proprio crollo dei suffragi, il partito della sinistra radicale tedesca, che ha...

5 Stelle, resa dei conti finale?

E adesso che succederà, dopo la decisione della settima sezione civile del tribunale di Napoli che azzera i vertici dei 5 Stelle? Cosa farà il fondatore del movimento, Beppe Grillo? I pentastellati sono sempre più a rischio di implosione e, dopo il pronunciamento dei giudici, lo scontro interno si sta rivelando sempre più come una lotta di potere. Ora, ai vertici dei 5 Stelle sono tornati il garante Beppe Grillo e il reggente Vito Crimi. È facile immaginare che l’esautorato Conte starà valutando le iniziative legali per tornare alla guida del partito. Di certo, il reggente Crimi dovrà garantire l’elezione di una guida collettiva (a cinque), cioè quanto decise la base del partito.

I giudici di Napoli hanno infatti dato ragione ai dissidenti dei pentastellati, rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, riconoscendo un deficit di democrazia interna nel momento in cui a capo dei 5 Stelle, nell’agosto scorso, fu eletto Giuseppe Conte. L’accusa è che non tutti gli iscritti poterono partecipare all’elezione. La decisione dei giudici napoletani arriva in un momento di forte tensione interna. Il presidente Conte aveva avvertito Luigi Di Maio: “Nei 5 Stelle nessuno è indispensabile”. E aveva precisato che, nel partito fondato da Beppe Grillo, “non sono ammesse le correnti”. Dopo la decisione del ministro degli Esteri di dimettersi dal Comitato di garanzia, proprio per avere le mani libere nel poter dire la sua sulle cose che non funzionano nel partito, Conte aveva voluto fissare dei paletti invalicabili, lasciando intuire che la battaglia interna si annunciava aspra (e che Di Maio potrebbe soccombere).

Emergenza Cuba: proteste, Covid e crisi

L’11 luglio è stata una domenica di forti tensioni in varie località di Cuba (le agenzie di stampa parlano di venticinque città dove si sono tenute manifestazioni di piazza con decine di arresti). Epicentro di proteste e scontri con la polizia è stata la località di San Antonio de los Baños, cittadina distante cinquanta chilometri da L’Avana, famosa perché sede della scuola di cinema fondata da Gabriel García Márquez e Fernando Birri.

A unificare la protesta è l’emergenza alimentare e sanitaria, oltre alla richiesta di democrazia. Il paragone di molti commentatori è andato al 1994, quando si ebbe “la crisi dei balseros”, con migliaia di persone che abbandonarono l’isola con mezzi di fortuna. In quel caso, si era nel periodo especial, fatto di privazioni e razionamenti all’osso, che sarebbe durato ancora un decennio, come effetto del crollo del Muro di Berlino e del “socialismo reale”. In quella fase, tuttavia, l’isola si aprì al turismo internazionale e si avviarono le prime riforme economiche verso un’economia mista e non più tutta statale (los cuentas propistas, i lavoratori privati nei settori artigianali).

Pd e 5 Stelle, le due crisi che si parlano

A volte la politica procede per salti. Dopo la crisi del governo Conte, sono implose due crisi: nel Pd e nei 5 Stelle. Sono parallele, incubate da tempo, e tuttavia s’intersecano perché i due poli poggiavano le proprie prospettive su un’alleanza politico-elettorale con cui guardare alla competizione con la destra.

Il terremoto avviato da Matteo Renzi nel facilitare la formazione del governo Draghi ha costretto Pd e grillini a collocazioni innaturali in un governo di “quasi tutti” con la costrizione imposta da pandemia, scadenze del recovery plan e secche parole del presidente Mattarella sulla situazione italiana, come al solito emergenziale. Sono precipitati – in entrambe le forze politiche – latenti problemi di identità, organizzazione, prospettiva. Il Pd si è trovato improvvisamente senza testa, cioè leader, a causa di giochetti e veti tra correnti che hanno portato alle dimissioni di Zingaretti. I 5 Stelle sono entrati a loro volta in un clima da prescissione (deputati e senatori che non hanno votato il governo, i dissensi sul ruolo della piattaforma Rousseau). Giuseppe Conte è stato così costretto (sponsor Beppe Grillo) ad accettare il ruolo di leader grillino, di cui tuttavia non si conoscono ancora i programmi politici improntati comunque agli ottimi rapporti con il Pd.