Eventi piccolissimi e apparentemente trascurabili possono avere a volte ripercussioni e conseguenze decisive sul piano storico. Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia sottolineava come siano più importanti le concatenazioni che un evento innesca che non le sue reali dimensioni. Così la vicenda minima dei barchini Huthi – i loro assalti pirateschi alle grandi navi commerciali che incrociano nel Mar Rosso, la cui nascosta rilevanza avevamo per tempo segnalato su “terzogiornale” (vedi qui) – da episodio locale rischia di riproporsi ora su scala più vasta, innescando un conflitto che potrebbe infiammare tutta l’area.
Che il minuscolo topo Huthi spaventi gli elefanti Stati Uniti e Regno Unito, suscitando una immediata e pesante reazione è degno di nota – ed è soprattutto il segno dei tempi. Combattenti in sandali di plastica, armati alla bell’e meglio, su patetiche barchette, bloccano i traffici commerciali di mezzo pianeta, mettono in crisi l’economia dei Paesi sviluppati e insidiano superpotenze nucleari. Non si tratta solo di un’attualizzazione della Teoria del partigiano, per rifarci a Carl Schmitt, con “proiettili umani” pronti a scagliarsi a costo della vita contro injusti hostes, in guerre moderne sempre più “asimmetriche”, ma della preoccupante crescita del caos del mondo. La situazione in Medio Oriente sta diventando esplosiva, con un conflitto che non ha più nulla del confronto bellico tradizionale, regolato in qualche modo da norme, ma si sta trasformando in uno scontro senza esclusione di colpi, segnato dal disconoscimento del nemico e dalla sua degradazione a criminale, fino alla de-umanizzazione dell’avversario, come mostra spaventosamente Gaza.
Così, in guerre da tempo ormai sottratte allo jus publicum europaeum, in un quadro internazionale contraddistinto dalla instabilità, la figura un tempo marginale del partigiano, del combattente irregolare, assume una nuova importanza quale elemento di destabilizzazione di un sistema più ampio, quale induttore di entropia, acceleratore di una crisi che però è crisi sistemica. Come se attraverso l’irrompere di questa figura venisse al pettine una serie di nodi cresciuti durante il processo di globalizzazione, accompagnato anche da un cambiamento strutturale nelle relazioni internazionali. Mutamenti che sono andati dalla perdita di significato dei confini degli Stati nazionali – con lo sviluppo di nuovi confini che si collocano al di sopra e al di sotto dello Stato o sono paralleli a questo –, passando per un intreccio inestricabile tra economia e politica, fino alle recenti tendenze al “multipolarismo centrifugo”.
La politica internazionale degli ultimi decenni è stata condizionata non solo dalla fine delle vecchie relazioni Est-Ovest e dalla dinamica dell’economia globale, ma anche dalle decisioni politiche di ridurre le restrizioni commerciali e deregolamentare l’economia (la famosa liberalizzazione): ciò ha creato le condizioni per un’accelerazione delle dinamiche della globalizzazione. Tutto questo però ha un prezzo, che stiamo cominciando a pagare: l’espandersi di una crisi politica generale, da intendere anche come una reazione alle sfide politiche globali che si sono intensificate nel corso della globalizzazione economica e sociale: la distruzione dell’ambiente, i cambiamenti climatici, le migrazioni, il fabbisogno di risorse in costante crescita, conflitti e guerre regionali.
Sicuramente la guerra tra la Russia e l’Ucraina, in questo senso, ha rappresentato un’avvisaglia e, al tempo stesso, un punto di svolta: è la prima guerra interstatale su larga scala in vent’anni. L’ultima di questo tipo era stata l’invasione dell’Iraq, da parte degli Stati Uniti, nel 2003. Ma non c’è solo la guerra tradizionale in Ucraina a mostrare il nuovo disordine che avanza; c’è una preoccupante tendenza all’internazionalizzazione dei conflitti, ossia un maggior numero di Paesi che intervengono nei conflitti di altri Paesi: il che significa che i conflitti stanno diventando più lunghi e sanguinosi, e più difficili da risolvere.
La curva del numero delle crisi globali punta verso l’alto. Un accumulo di crisi diverse, a partire da quella monetaria e finanziaria globale del 2007-8. Le crisi, certo, ci sono sempre state, ma il loro cumularsi attuale è qualcosa di nuovo. Il problema vero, però, non è neppure quello della crescita numerica di crisi e conflitti, quanto piuttosto la loro simultaneità. Lo storico Adam Tooze ha parlato di policrisi, ovvero di diverse crisi importanti che coesistono allo stesso tempo. Questo rende più difficile trovare soluzioni, anche perché in molti casi le crisi si influenzano a vicenda. Stiamo solo iniziando a capire come si intreccino, come si influenzino l’un l’altra, e come siano interdipendenti. Le diverse crisi interagiscono in modo tale che l’impatto complessivo supera di gran lunga la somma delle singole parti, non esistono semplicemente l’una accanto all’altra, ma si influenzano e si rafforzano a vicenda.
Si è creata, dunque, una situazione senza precedenti: nel suo divenire tendenzialmente policentrico, il mondo si trova a essere oggetto di una serie di tensioni difficilmente risolvibili, e a dovere affrontare sfide globali di portata gigantesca come conseguenza diretta della sua vertiginosa crescita economica e delle contraddizioni ad essa legate. In un simile contesto, la guerra è forse ineluttabile, come mostra il suo ormai continuo tornare; e spesso è voluta e innescata da quelle stesse grandi potenze che, magari con lo sbandierato pretesto di volere preservare la pace e i commerci, continuano a “crearsi un’antitesi” – avrebbe detto Hegel. Poste innanzi alla reale concatenazione degli eventi, le belle parole dei trattati e delle carte internazionali non possono che scolorire e velarsi d’ipocrisia. Così, in nome della preservazione della catena logistica delle merci, si possono bombardare gli Huthi d’emblée e senza tanti problemi, in uno scenario peraltro già arroventato. Non resta che sperare che, nonostante tutto, un conflitto più ampio sia ancora una volta scongiurato. Sebbene vada ricordato, citando ancora il filosofo, che “le guerre hanno luogo quando esse siano nella natura della cosa (…) e le chiacchiere ammutoliscono, dinanzi alle serie repliche della storia”.