
Ora che appare consumato il distacco di Conte e dei suoi dal governo, si può porre la domanda: la crisi è una buona o una cattiva cosa? Risposta: in questo momento, potrebbe essere del tutto indifferente per il Paese. In primo luogo, perché una maggioranza parlamentare per andare avanti ci sarebbe – con un altro governo o con un Draghi bis, o addirittura con questa stessa compagine appena un po’ rimaneggiata –, e tutto dipende dalla volontà delle altre forze politiche, oltre che naturalmente da quella del capo dello Stato. In secondo luogo, perché se questi, dopo avere verificato quale sia l’intenzione prevalente in parlamento, dovesse decidere lo scioglimento delle Camere, si andrebbe a votare in autunno anziché alla fine dell’inverno prossimo: si tratterebbe, dunque, di una fine anticipata della legislatura solo di qualche mese. Il punto spinoso è che si voterebbe con la legge elettorale attuale, che com’è noto non è affatto un granché. Ma è anche vero che l’eventuale iter per approvarne un’altra difficilmente potrebbe mettere capo a un risultato, visti i tempi ravvicinati che ci dividono dalla scadenza naturale della legislatura.
Da un punto di vista politico più generale – e con una particolare attenzione a quella che oggi, per la sua collocazione parlamentare, si chiama “sinistra” – un anticipo delle elezioni potrebbe persino essere una cosa positiva. A vivere in un clima di bonaccia tecnocratico-centrista, una forza come il Pd (per tacere della piccola variante di Articolo uno) appare così profondamente addormentata che una scossa potrebbe avere soltanto un effetto positivo. Le elezioni in autunno spingerebbero a costruire dei programmi, forse addirittura a proporre come presidente del Consiglio qualcuno che non sia Draghi.
Il problema – si dice – sarebbe quello dei rapporti con i 5 Stelle. In realtà, non è affatto incomprensibile l’atteggiamento di Conte, che deve cercare di traghettare verso una sorta di “progressismo di centro” quella che fu una formazione populistica, con tutte le enormi difficoltà che questo comporta, e avendo dovuto subire una scissione in chiave draghiana. L’identità “antipolitica” non esiste più – ma che cosa sono i 5 Stelle oggi? Nessuno lo sa. E per questo l’apertura di una crisi – dopo avere presentato a Draghi un insieme di proposte (tra cui quella del salario minimo) per la maggior parte per lui inaccettabili, anche a causa della composita maggioranza che lo sostiene – è un tentativo di rimarcare una presenza, ribadendo alcune delle proprie tematiche caratterizzanti, come il cosiddetto reddito di cittadinanza.
In fin dei conti, però, o che i 5 Stelle si irrigidiscano o che siano più malleabili, l’alleanza con il Pd sembra assicurata. Presentarsi disgiunti, soprattutto con il sistema elettorale attuale, sarebbe un suicidio. Già così, la partita con la destra si profila molto dura – ma almeno questa specie di nuovo centrosinistra (peraltro privo di una componente autonoma di sinistra al suo interno) è in grado di competere. Se si desse ascolto a quelli che non vorrebbero un’alleanza con i 5 Stelle (cioè i renziani rimasti a presidiare il Pd), ci si condannerebbe a una sconfitta in partenza. E non si uscirebbe più dal torpore indotto dalla bonaccia tecnocratico-centrista per passare – almeno – a un minimo di dinamismo politico, senza il quale nessuna campagna elettorale potrebbe mai essere affrontata.