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Il governo più a destra nella storia della Repubblica

In altri momenti un governo come quello appena insediato avrebbe provocato un’ondata di sdegno, e l’obiettivo sarebbe stato di buttarlo giù al più presto con una spallata. Non avverrà, sebbene non sia da trascurare la possibilità di un incremento della conflittualità sociale, oggi ancora ai minimi storici in Italia. Ma questo governo pessimo, per programmi e per composizione, non ha bisogno di “essere messo alla prova”, come sostengono alcuni commentatori nei giornali borghesi: appare schifoso fin da subito. Non si salva neppure a causa della presenza, per la prima volta nella storia d’Italia, di una donna alla presidenza del Consiglio. Perché questa donna è un esempio di ipocrisia. Si avvale di tutti i risultati raggiunti con grande fatica dai movimenti di emancipazione femminile (considerati in senso lato) e al tempo stesso tende a sabotarli: per esempio, non è sposata, ha una figlia, ma difende la famiglia tradizionale; si pone come una postberlusconiana – e in qualche misura lo è, se si pensa al ruolo di prostitute o yeswomen riservato alle donne dall’orrido tycoon –, ma il suo compagno è un dipendente Mediaset.

Il governo ha davanti a sé un’opposizione parlamentare inconsistente e priva di unità, che gli ha regalato la guida del Paese (la “nazione”, di cui blatera Meloni, non sappiamo cosa sia); se non potrà portare avanti fino in fondo le politiche radicali che ci si aspetterebbe, sarà solo a causa dei soldi che l’Italia deve ancora ricevere dall’Unione europea. Si mettano il cuore in pace i sovranisti e gli euroscettici di ogni tendenza: l’Italia dei postfascisti, a parte i roboanti annunci di “orgoglio”, andrà in Europa con il cappello in mano. A questo scopo, ci sono i ministri degli Esteri e dell’Economia, Tajani e Giorgetti. Tuttavia la guerra contro le Ong che salvano vite umane riprenderà, riprenderà la ripugnante propaganda anti-immigrati. Qualcosa di cui abbiamo purtroppo contezza, avendo vissuto la fase del Salvini ministro, determinata dal Pd di Renzi e dalla sua indisponibilità, in quel momento, a un governo con i 5 Stelle (il che dimostra, tra parentesi, come sia ormai storico l’intreccio tra l’insipienza del Partito democratico e la costituzione di governi di destra).

Il topo e i vermi

In un alto consesso senatoriale un ex “topo di fogna” (ma poi davvero ex?) si candida alla presidenza; alcuni suoi antichi sodali si smarcano per ripicca, non lo votano; e allora interviene in soccorso una pattuglia di vermi che lo fa eleggere. Un film di ordinario trasformismo? Nella sostanza sì. Ma viene in mente questo, in aggiunta: il Partito democratico non è mai uscito dalla sua renzizzazione. Anzi, la “renzata” – cioè la manovra parlamentare che porti a un governo tecnico o di “larghe intese” – è ormai parte integrante della sua non-identità. Che poi ha un nome preciso: quello di Dario Franceschini. Fu lui, fin dall’inizio della infausta vicenda, tra quelli che vollero un partito senza ideologia e senza identità – di fatto, un agglomerato di personalismi e potentati. E fu anche lui, con la sua corrente, a essere il primo sostenitore di Renzi alla segreteria del Pd (salvo poi pentirsene).

Non si tratta solo di uno stile democristiano, sebbene questo indubbiamente abbia un peso, dato che i “franchi tiratori” erano un’istituzione nel partito cattolico; si tratta, purtroppo, di qualcosa di peggiore. L’essere “vermi” è parte di una egemonia berlusconiana sulla politica italiana, che dura da trent’anni, nonostante l’irreversibile declino del vecchio patriarca. Il Pd, nelle intenzioni dei suoi fondatori, doveva essere una specie di Forza Italia “di sinistra”: lo dichiarò un suo teorico, se così possiamo chiamarlo, Michele Salvati, e cominciò con il concretizzare la cosa Walter Veltroni. Ora, dato che un gruppo di potere univoco, imprenditoriale e mediatico, come quello che stava alle spalle della Forza Italia originaria, non c’era, il Pd risultò subito quel partito che non è né carne né pesce, pronto perciò a qualsiasi forma di compromissione. Tentò – è vero – una qualche sterzata la segreteria Bersani, però il diavolo ci mise lo zampino (in quel momento si chiamava “gruppo Grillo-Casaleggio”, un aggregato non meno privatistico di Forza Italia, ma con una capacità di trascinamento dello scontento popolare), e Bersani, non avendo veramente vinto le elezioni, dovette passare il testimone appunto a… Renzi.

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Il problema è il Pd

Non si chiedeva molto al Partito democratico e al suo gruppo dirigente postdemocristiano. Non di rinverdire i fasti progettuali dei convegni di San Pellegrino degli anni Sessanta; non certo di avere un quadro chiaro intorno alla dinamica delle classi sociali in Italia; e neppure di avviare un’analisi sul perché – da quando c’è – il Pd perde regolarmente le elezioni o non le vince come dovrebbe (è il caso della segreteria Bersani e della sua coalizione, spostata appena leggermente a sinistra, nel 2013). Si desiderava soltanto che, sulla base di una qualche capacità manovriera (appresa da uno come Letta, magari, fin dagli anni giovanili nell’Azione cattolica), ponessero il Paese al riparo dall’onda nera che faceva seguito (e i segnali c’erano tutti, provenienti dai sondaggi così come dall’agitazione reazionaria e bottegaia nel momento più buio della pandemia) all’onda gialla del 2018, che aveva visto un agglomerato qualunquistico, come i 5 Stelle, arrivare a sfiorare il 33% dei voti. Capacità manovriera significherebbe, poi, abilità politico-tattica nel proporre una coalizione di governo dotata di un programma credibile.

Nulla di tutto questo. Il Pd di Letta e Franceschini si è sdraiato sul governo Draghi, nato da un’operazione di palazzo propiziata dal loro stesso ex segretario Renzi, dimenticando che prima c’era stato un governo Conte 2 che non si sarebbe voluto far cadere, e intorno a cui si era andato costruendo un rapporto privilegiato con un Movimento 5 Stelle in via di trasformazione in qualcosa di diverso dallo scomposto agglomerato qualunquistico iniziale. Non un partito di sinistra, certo no – ma una formazione politica che, sia pure perdendo pezzi, confermava il suo radicamento nel Paese, soprattutto in quelle trascurate regioni del Mezzogiorno, delle quali i cacicchi del Pd (vedi De Luca in Campania), con il loro collaudato sistema di potere, stentavano ormai a reggere lo storico malessere.

Il “mistero” di un Pd votato alla sconfitta

È arcinoto, e su “terzogiornale” ci siamo ritornati più volte, che il Pd ha scelto di “passare” in queste elezioni (come nel gioco delle carte) e di dare partita vinta all’avversario, intenzionato soltanto a misurare l’entità della sconfitta che si profila, soprattutto mediante il giochino del “chi arriva primo” tra Letta e Meloni: risultato del tutto ininfluente ai fini della costruzione di una maggioranza parlamentare, ma che comunque – nel caso di un successo peraltro sempre più improbabile – potrebbe salvare il gruppo dirigente piddino, quando si tratterà di una resa dei conti intorno a una linea politica che, già da ora, appare fallimentare. Si poteva, infatti, perdonare l’avventurismo grillino che, timoroso di perdere ulteriormente voti, ha minato il fulgido percorso del governo Draghi, e proseguire nell’alleanza con i 5 Stelle. Oppure si poteva cercare di mettere insieme una coalizione centrista, con un programma di governo draghiano, e allora bisognava trattare, insieme, con i due improvvisatori Renzi e Calenda. Scartata senza troppe spiegazioni la prima ipotesi e mai risolutamente praticata la seconda (avendo per giunta subìto il rapido voltafaccia di Calenda), la segreteria di Letta vacilla.

Tutto ciò è chiaro. Quello che è più difficile da comprendere è il totale silenzio all’interno del Pd. Lasciamo stare i 5 Stelle, con le loro complicate procedure di consultazione, ancora in parte viziate dall’originario morbo “antipolitico” – ma il Pd? Questo partito ultra-composito, formato da una quantità di componenti e potentati, come mai si è mostrato così passivamente compatto nell’accettare la perdente tattica elettorale del suo segretario? Rispondere a questa domanda sarebbe un’impresa non da poco per dei sociologi della politica, o forse per degli psicologi della politica. Come mai un partito, che si vuole democratico e di centrosinistra, offre così palesemente il fianco alla concreta possibilità di orbanizzazione del Paese?

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