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Se Roma ha ragione contro Bruxelles sulle restrizioni ai viaggi
Non è mai una buona cosa quando gli Stati europei si muovono in ordine sparso; il principio del coordinamento delle decisioni in seno all’Unione è un punto basilare dal quale bisognerebbe cercare di non deflettere. Ma è da Bruxelles che sarebbe dovuta provenire, e già da alcune settimane, la direttiva che Roma ha adottato adesso motu proprio. I contagi sono in così rapido aumento che delle restrizioni agli ingressi nel Paese si rendono necessarie. A fondamento della decisione, spiegata dal presidente del Consiglio Draghi, c’è la minore diffusione della variante “omicron” in Italia. Per quanto ci riguarda, non solo approviamo questa linea di attenzione, ma deprechiamo anche che in Europa, dall’estate scorsa, ci si sia lasciati andare a una ripresa scomposta delle attività. L’esempio più evidente è dato dalla Gran Bretagna: è vero che questa è ormai fuori dall’Unione e può fare quel che vuole, ma se i suoi 78mila contagi di ieri gridano qualcosa, è senz’altro una protesta implicita contro la scelta scellerata di abolire tutte le precauzioni protettive nei riguardi del virus, facendo affidamento unicamente sui vaccini, in una campagna di immunizzazione peraltro priva di qualsiasi incentivo come l’adozione del pass sanitario. Un discorso analogo vale per la pur serissima Germania, su cui il nostro Agostino Petrillo ha scritto un articolo che si può leggere qui.
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Se il leader del sindacato italiano per tradizione meno propenso allo scontro con le controparti e il governo, la Cisl, parla, a proposito delle decisioni assunte sulle pensioni, di misure che ci accompagneranno “verso la piena normalità della legge Fornero” e avverte che “tutto ciò per noi è inaccettabile” è forse arrivato il momento di fermarsi a riflettere. E di chiedersi fino a che punto e in che modo inciderà sul nostro futuro il governo presieduto da Mario Draghi con un piglio decisionista – piuttosto naturale per banchieri, imprenditori e militari, il che ci ricorda per quale motivo, in genere, i sistemi democratici vivono meglio senza affidarsi a questo genere di figure – che gli stessi sindacati hanno dovuto sperimentare in questi giorni.
Non sarebbe sensato attendersi una mobilitazione sindacale troppo vigorosa per i prossimi mesi, ma le tensioni non mancano. A dispetto degli sforzi sostenuti dal Pd, in questi mesi, per “intestarsi” l’agenda Draghi, c’è da prevedere qualche imbarazzo al Nazareno per il malumore delle organizzazioni dei lavoratori di fronte al capo del governo che, secondo il gergo giornalistico d’antan, tornato in auge nel 2021, “tira diritto”. La norma-tampone di “quota 102” serve ad attutire l’impatto per partiti e sindacati, pur in sofferenza. La Fiom annuncia uno sciopero contro la manovra, ma è già bollato come “fuga in avanti” rispetto alla ritualità dell’unità fra le confederazioni. Qualche negoziato parlamentare è prevedibile sugli strumenti parziali esistenti per la flessibilità in uscita dei pensionandi.
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Enrico Letta ha definito l’episodio “gravissimo”, ha convocato i ministri del Partito democratico per discuterne e ha accusato la Lega di voler fare “saltare il banco” della maggioranza parlamentare. Ma l’assenza dei rappresentanti leghisti dal Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al testo del disegno di legge delega sulla riforma fiscale, è stata già ridimensionata il giorno dopo, quando Matteo Salvini si è presentato davanti a cronisti e telecamere denunciando una “patrimoniale nascosta” e sventolando i fogli con le norme incriminate. “Basta togliere questi due commi dalla delega fiscale e facciamo un buon servizio al Paese, non alla Lega”, ha spiegato.
Ora, la drammatizzazione deve essere sembrata al Pd una brillante mossa per animare il dibattito politico in vista dei ballottaggi e scavare nelle contraddizioni interne alla destra. Ma immaginare che la Lega e i suoi referenti nel mondo delle imprese, delle professioni e della rendita, vogliano una crisi del governo Draghi per due commi di una delega rappresenta uno sforzo eccessivo di creatività.