Il mestiere del sindacalista è duro. Ha bisogno di un innato ottimismo per convincere la controparte, per fare capire le ragioni dei lavoratori in un mondo in cui contano solo il denaro e le compatibilità di mercato. Deve avere pazienza, il sindacalista, e resistere un minuto di più del padrone (come si diceva nel secolo scorso). Ma alla vigilia del tavolo al ministero del Lavoro, convocato per domani, non c’è un grande ottimismo tra i sindacalisti. Dice Gianni Venturi della Fiom-Cgil nazionale: “Ho la sensazione che il governo sia in balia degli eventi”. Insomma fa la parte di Ponzio Pilato.
La vicenda spinosa a cui ci riferiamo è quella dell’ex Ilva oggi Acciaierie d’Italia. Dopo la condanna penale in primo grado per inquinamento doloso e una sfilza di reati ambientali, con la confisca dell’area a caldo, ormai risalente a più di un mese fa, e il ribaltamento del Consiglio di Stato sulla chiusura della stessa area a caldo voluta dal sindaco e confermata dal Tar, siamo adesso tornati all’inizio di quella che è stata, fin dal principio, una tela di Penelope.
C’è innanzitutto questa sgradevole sensazione che il governo non voglia progettare una riconversione ambientale della più grande acciaieria d’Europa, risarcendo la città di Taranto. E il ministro leghista dello sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, è come se rispondesse più alla richiesta delle lobby dell’acciaio, e dei padroni lombardi dei tondini, che a una politica industriale “ecologica”.
Ora lo Stato detiene il 38% del pacchetto azionario dell’acciaieria e il 50% dei voti dell’assemblea dei soci. Potrebbe alzare la voce, farsi sentire, dare un segnale alla città offesa e violentata da sessant’anni di veleni. E invece non ha provocato reazioni, una presa di posizione, neppure l’annuncio dell’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, di fare ricorso al Tar contro l’ordinanza del ministero della Transizione ecologica di chiudere la “cockeria 12” per inadempienza aziendale, a causa di certi lavori di manutenzione che l’azienda doveva realizzare.
Ecco la tela di Penelope. Dieci anni fa, la magistratura tarantina fa arresti, sequestra gli impianti, decide a quali condizioni si può andare avanti con la produzione. Il governo cerca di ammortizzare il colpo e con un’altissima produzione di decreti ammazza ordinanze della magistratura. Interviene anche la Corte costituzionale, con una sentenza del 2013, che in sostanza riconosce il diritto all’impresa prevalente. E dà alcune direttive sulla tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini. Nel 2018 la Consulta ritorna sull’argomento, “rimarcando con forza come il diritto alla salute non può soggiacere, se non a prezzo di qualche forzatura del dettato costituzionale, a bilanciamenti con altri interessi pur costituzionalmente rilevanti (essendo il diritto alla salute l’unico diritto che, non a caso, è definito fondamentale dalla nostra Costituzione)”.
Ora, nel caso in cui l’azienda e il governo dovessero continuare a prendere tempo, la magistratura tarantina, forte della nuova pronuncia della Consulta, continuando a monitorare la situazione dell’Ilva, potrebbe decidere di intervenire nuovamente. Perché nel tempo sono state presentate nuove denunce dagli ambientalisti, che si sono rivolti anche al governo: “Siamo venuti a conoscenza dell’ultima ricerca epidemiologica che certifica un effetto sinergico del piombo e dell’arsenico nei bambini di Taranto più esposti, ossia quelli più vicini al polo industriale”. La preoccupazione degli amministratori locali è che, se dovesse risalire la produzione, il tasso di inquinamento conoscerebbe nuovi picchi. E di questo hanno timore gli stessi magistrati tarantini.
L’incertezza, naturalmente, provoca anche delle ricadute sulla produzione e sulla mano d’opera. A fine luglio dovrebbe ripartire un altoforno, Afo4. L’anno scorso lo stabilimento raggiunse una produzione di 3-3,5 milioni di tonnellate di acciaio; ma se dovessero chiudere gli altiforni a carbone e si dovesse procedere con gli altiforni green a idrogeno, la produzione non potrebbe comunque superare i sei milioni di tonnellate di acciaio.
A Roma si stanno studiando le alternative possibili per “decarbonizzare” Taranto. Si parla di un ciclo ibrido con altiforni, forni elettrici alimentati da fonti decarbonizzate. Utilizzare la fonte idrogeno comporterebbe una riconversione di 8-12 anni di lavori. Si parla di miliardi di investimenti. Con le fonti energetiche rinnovabili e i forni elettrici, i tempi di realizzazione dei nuovi impianti scenderebbero a 3-4 anni.
Sulle fonti di alimentazione a idrogeno il governo ha investito solo un miliardo e duecento milioni, e ha messo in cantiere due progetti per quest’anno. In Germania, sull’idrogeno, hanno già investito nove miliardi e mezzo. Il 2 agosto si insedierà il nuovo Consiglio d’amministrazione e presidente dovrebbe essere Franco Bernabè. Cosa accadrà?