Presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia è reduce dall’assemblea generale tenutasi a Palermo pochi giorni fa. Complicato traghettare la nave dei magistrati in questo mare di polemiche, assalti di pirati che vogliono disarmare i pubblici ministeri della loro autonomia e indipendenza.
Presidente, siamo alla vigilia della capitolazione? All’epilogo dello scontro trentennale tra magistratura e politica?
Il nostro impegno – pur nel fermo dissenso rispetto alle annunciate riforme costituzionali e a molte di quelle che stanno interessando, con legge ordinaria, la giustizia – sta nell’evitare la rappresentazione di uno scontro con la politica, di un assalto alla cittadella giustizia, e quindi di una possibile prossima capitolazione. Quel che è in gioco non è soltanto la sorte di un potere dello Stato, quello giurisdizionale, ma il benessere democratico della cittadinanza, di cui tutti facciamo parte. Se facessimo tutti questo sforzo, di ricondurre all’interno di un progetto che non deve avere vincitori e vinti le questioni sulla giustizia, anche il più netto dissenso sarebbe leggibile non come l’ultimo atto di una guerra trentennale, ma come la ricerca della migliore soluzione. Che ben può essere di non manipolare la Costituzione, perché l’assetto attuale dei poteri non tocca in alcun modo i nodi che la giustizia oggi pone in termini di un servizio che deve ambire a maggiore efficienza e – aggiungo – al mantenimento di un’accettabile qualità della risposta.
Come si può neutralizzare questo braccio di ferro tra governo e magistratura associata? Anche Giovanni Falcone era per la separazione delle carriere. Perché il vostro appare come un “no” ideologico, pregiudiziale, alla separazione?
Purtroppo, le riforme costituzionali sulla giustizia sono sovente presentate come la risposta della politica a inchieste e a iniziative giudiziarie sgradite. Questo è un fatto, basta leggere le rassegne stampa degli ultimi mesi, e direi anche dei molti anni trascorsi. Non ho timore di essere smentito, ma se di braccio di ferro deve parlarsi, non è alla magistratura che può imputarsi la voglia di una contrapposizione di forza. Del resto, come potere di garanzia non fondato sulla legittimazione per consenso popolare, la giurisdizione è un potere strutturalmente debole all’interno di uno scontro con la politica. Io eviterei di usare la figura di Giovanni Falcone per sostenere (o, anche, contrastare) proposte riformatrici che vanno valutate e ponderate senza ricorrere a decontestualizzazioni di opinioni pur autorevolissime. Non mi pare un buon metodo, anzi dà l’impressione di una certa carenza di argomenti solidi. La contrarietà alla separazione delle carriere non è né ideologica né pregiudiziale. La separazione dall’ordine giudiziario avrà come effetto la collocazione del pubblico ministero in uno spazio a oggi sconosciuto nella tradizionale tripartizione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario. Quanto durerà questa indipendenza separata? Potrà essere tollerabile un pubblico ministero del tutto indipendente, separato da tutti gli altri poteri dello Stato? Non si rischia di rafforzarlo oltre ogni misura democraticamente accettabile? A chi oggi, fautore entusiasta della separazione, dice che il pubblico ministero di domani avrà la stessa autonomia e indipendenza di quello di oggi, replico: e allora, perché cambiare la Costituzione? Una volta separato dalla giurisdizione, il pubblico ministero sarà attratto, come accade in molti altri ordinamenti, nella sfera di influenza dell’esecutivo.
Nei giorni scorsi “La Stampa” ha intervistato Marcello Flores che ha scritto (con Mimmo Franzinelli) il libro Conflitto tra poteri. I due storici sostengono che Mani pulite è stato “un ciclone in un bicchier d’acqua” che ha lasciato il Paese “uguale a prima o peggio”. Analisi impietosa, con un pizzico di verità. Concorda?
Le letture “deluse” della stagione di Mani pulite hanno tutte come premessa ciò che non doveva attendersi, ossia che soltanto l’opera del giudiziario potesse risolvere il rilevante problema che quegli anni posero alla generale attenzione. La delusione è pari alla errata convinzione che indagini e processi potessero essere armi sufficienti per contrastare la corruzione e l’illegalità diffusa, che si scoprì essere il collante tra mondo della politica e mondo dell’imprenditoria. Ne è prova che soltanto dopo molti anni – mi riferisco alla cosiddetta legge Severino del 2012 – si è pensato di introdurre nell’ordinamento meccanismi di prevenzione della corruzione, da affiancare necessariamente alla repressione giudiziaria degli illeciti. Dovrebbe far riflettere, peraltro, la insistita contrarietà di ampi settori della politica al mantenimento di un adeguato apparato di prevenzione della corruzione – la legge Severino è da anni in predicato di forte ridimensionamento. A chi guarda con disincanto a quella stagione, e raccoglie soltanto l’immagine di errori e sbavature nell’atteggiamento e nell’attività della magistratura, dico che il fenomeno corruttivo di così vaste proporzioni non fu certo una invenzione dei magistrati per tenere sotto scacco la classe politica. Aggiungo che un errore ancora più grande di quelli che si attribuiscono ai magistrati è di intendere, più o meno espressamente e consapevolmente, il primato della politica come un affrancamento dei politici dal controllo di legalità. Ed è questo, più che il protagonismo di alcuni magistrati ampiamente censurato anche all’interno della nostra categoria, che dovrebbe preoccupare di più.
Parliamo del presente. Tra la corruzione di ieri e quella di oggi, c’è un abisso. Ieri Mani pulite, il potere politico e l’imprenditoria, ma anche la mafia, si spartivano la torta degli appalti. Era la politica il croupier del tavolo verde degli affari truccati. Oggi, sono i politici “straccioni” che vanno a bussare dagli imprenditori. In cambio di una crociera o di una Smart, concedono appalti.
Su quale sia oggi lo scenario del fenomeno corruttivo, certo non marginale, mi permetto di usare molta cautela. Attenderei sviluppi ulteriori e una migliore definizione del contesto per poter esprimere una qualche valutazione. Certo è che gli anni presenti sono di una maggiore debolezza della politica, figlia di un concorso di cause che unifica esperienze democratiche di molti Paesi. Quel che mi sento di dire è che la percezione di debolezza della politica può rendere più ostinato il ceto politico nel portare avanti progetti sorti proprio a ridosso della stagione di Mani pulite, sull’errata convinzione che la perdita della primazia della politica fosse l’effetto di una invadenza del giudiziario, fattosi forte a scapito della politica. Oggi sarebbe il tempo di fare chiarezza, di ragionare liberi da sentimenti ed emozioni di quel periodo, e di provare a pensare che il recupero del primato della politica non passa per la via dell’indebolimento del giudiziario. E che anzi una società con minor controllo di legalità non restituirà alla politica l’autorevolezza che tutti vorremmo.