Un anno fa, con il lockdown nazionale, venivano messe in atto per la prima volta in un paese europeo alcune strette misure di contenimento di un’epidemia. È vero, nessuno si sarebbe aspettato una cosa del genere in tali proporzioni (a parte pochi esperti, considerati però da tutti come delle cassandre), il sistema sanitario fu colto del tutto impreparato (mancavano, in maniera drammatica, i dispositivi di protezione non solo per i comuni cittadini ma anche per il personale medico e infermieristico). In Lombardia, epicentro della crisi, gli anziani morivano come mosche e nelle televisioni scorrevano le immagini delle colonne di mezzi militari che portavano via le bare. Dinanzi a un simile spettacolo fu possibile assumere, con un largo consenso, dei provvedimenti sotto certi aspetti perfino eccessivi nella mancanza di qualsiasi diversificazione territoriale: perché – se l’emergenza riguardava le regioni del nord – le stesse identiche restrizioni dovevano valere anche in Basilicata, dove i contagi erano scarsissimi?
Poco importa, il significato assolutamente nuovo di quella vicenda si riassume così: per la prima volta, in regime neoliberale, gran parte delle attività economiche fu interrotta, la produzione e il consumo, quindi la valorizzazione del capitale, non vennero più messi al primo posto e valore prevalente fu considerata la difesa della salute dei cittadini, seguendo in questo, del resto, il dettato costituzionale.
Gli effetti positivi peraltro si videro: nel mese di giugno i contagi erano ormai calati in modo vertiginoso, e un euforico sentimento di liberazione ci regalò la “folle estate”, come l’ha definita Massimo Galli, che ha poi fatto risalire i casi e i decessi. Bisogna dire che, nell’autunno scorso, il governo Conte non ebbe il coraggio e la determinazione per riprendere la via del rigore. Pressato dalla destra (anche dalla sua stessa componente di destra interna), l’idea di un’Italia “a colori”, con misure a macchia di leopardo, era già una cessione delle armi dinanzi all’imperativo della valorizzazione del capitale: le attività economiche ridiventavano prevalenti. Ma è provato che ci si contagia soprattutto nei luoghi di lavoro – anche per via della mancanza di trasporti pubblici collettivi efficienti, ed essendo l’uso delle mascherine tutt’al più un deterrente –, poi nelle scuole, nei rapporti familiari e, infine, nelle attività ricreative e del tempo libero. Si è però intervenuti in maniera risoluta soltanto su queste ultime, in particolare con il cosiddetto coprifuoco che ha sospeso la baldoria e le sbevazzate notturne.
Le misure, tardive e all’acqua di rose, assunte dall’attuale governo a ridosso delle festività pasquali sono la conferma, in peggio, del cambiamento di rotta. In una situazione di contagi crescenti a causa delle varianti del virus, si fa affidamento su una campagna vaccinale che non si sa, invero, quanto speditamente possa procedere. Ed è noto che, per essere efficace, una campagna vaccinale – a maggior ragione con un virus mutato – dovrebbe andare di pari passo con una drastica riduzione della circolazione dell’infezione. I virus, infatti, come gli insetti con gli insetticidi, imparano strada facendo a resistere ai vaccini: più contagiati ci sono in giro, più palestre in cui un virus può farsi i muscoli.
Ma le attività produttive, sia quelle industriali sia quelle dei servizi, non dovranno sottostare a nessuna particolare limitazione, non è prevista alcuna misura specifica, e non ci sarà alcun controllo, per salvaguardare la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. È addirittura concesso di recarsi nelle seconde case, perfino nelle regioni collocate in “zona rossa”, portando così i contagi dalle grandi città in quelle piccole località in cui magari ce ne sono ancora pochi. D’altronde che cosa ci si poteva aspettare da un governo sostenuto da una maggioranza tanto eterogenea? Si sa che Draghi sta lì soprattutto per i soldi, cioè per suddividere e gestire i fondi europei. Della salute dei cittadini, alla fine, chi se ne importa!