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Quella “impossibile” riforma del catasto
Lungamente attesa e da tempo dovuta, la riforma del catasto è passata, lo scorso 15 aprile, per un solo risicatissimo voto in commissione Finanze. L’opposizione delle destre al disegno del governo è stata estremamente dura, all’insegna del “no all’aumento delle tasse”, dato che Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia ritengono che, dietro la riforma, si celi un tentativo di incrementare il prelievo fiscale. Paradossalmente, il governo ha rischiato di cadere su una misura che non è neppure una riforma vera e propria, ma solo un tentativo di mettere ordine in una giungla irrazionale quale è l’attuale sistema di definizione dei valori catastali. L’obiettivo del provvedimento, infatti, è principalmente quello di fare emergere immobili e terreni “fantasma”, non accatastati correttamente o neppure registrati, che secondo alcune stime supererebbero il milione di unità. La riforma prevede che venga individuata, per ogni unità immobiliare, non solo la rendita catastale vigente, ma anche il valore patrimoniale e una rendita attualizzata ai correnti valori di mercato.
Si tratta di un intervento necessario, su cui non varrebbe nemmeno la pena di discutere: l’attuale catasto dei fabbricati è stato impostato nel remoto periodo fra le due guerre, ed è entrato in vigore nel 1939. Un’altra epoca, in cui il patrimonio edilizio nazionale era radicalmente diverso da quello attuale. Gli italiani non avevano garage ma stalle, e molte delle case erano prive di acqua corrente. Era un’Italia ancora fatta di piccole città, per lo più preindustriale, e in cui i pochi uffici esistenti non avevano niente a che vedere con quelli attuali. Il problema è che le rendite attribuite in quell’epoca a categorie di beni immobili, ben diverse da quelle odierne, sono state nel corso dei decenni solo occasionalmente aggiornate, e sono state successivamente elevate mediante l’applicazione di moltiplicatori piuttosto generici, non legati alle specifiche caratteristiche tecniche ed economiche dei beni. L’ultima revisione di questi coefficienti risale al 1988-89, cioè a oltre trent’anni fa.
In Cile la “sinistra meticcia” alla prova
Parlamento, rissa in commissione sulle tasse
Se il fisco ama i ricchi
Ignazio La Russa, esponente di primo piano di Fratelli d’Italia – e storico dirigente prima del Movimento sociale italiano, poi di Alleanza nazionale –, ha proposto recentemente di prelevare dal reddito di cittadinanza (provvedimento con molti detrattori, ne parlammo qui) le risorse finanziarie per l’incremento delle spese militari. Un limpido e coerente manifesto politico-sociale, che nel panorama italiano attuale rischia di trovare adesioni molto oltre i confini della destra postfascista. Una nuova, buona motivazione per non perdere di vista il tema cruciale delle disuguaglianze e degli assetti sociali reali della società italiana, travolti come siamo da un dibattito pubblico monopolizzato dalla violenza materiale della guerra e da quella virtuale, ma non meno pericolosa, della retorica bellicista.
Può essere di una qualche utilità, quindi, segnalare il lavoro di ricerca illustrato recentemente sul sito “lavoce.info” da Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi, Andrea Roventini e Alessandro Santoro. Il titolo – “Sistema fiscale: la progressività è poca e mal distribuita” – descrive con chiarezza la tesi degli autori e giustifica, ci pare, il nostro interesse. Abbiamo più volte ricordato anche noi (fra l’altro qui e qui) come i governi che si sono succeduti abbiano costantemente lavorato per spuntare gli artigli della progressività fiscale, prescritta dall’articolo 53 della Costituzione, riducendo, nel corso di poco meno di mezzo secolo, da trentadue scaglioni a cinque (con Draghi si andrà a quattro) le aliquote Irpef e abbassando drasticamente il tetto di quella più alta, passata da 600 milioni di lire a 75mila euro, nominalmente un quarto, ma in termini di potere d’acquisto reale la differenza è ancor più spiccata.
Sindacato, uno sciopero fastidioso
Manovra finanziaria, il governo non si smuove
Il primo sciopero generale da sette anni a questa parte? A palazzo Chigi non pervenuto, o quasi. La manovra finanziaria del governo non cambia indirizzo, anche se piccoli segnali di permeabilità al malcontento sociale si intravedono, ora che inizia a diradarsi la cortina fumogena dei “no vax”, per mesi volutamente sovra-rappresentati come unica – e irragionevole – opposizione al governo. Sono in arrivo un po’ di soldi aggiuntivi per la scuola, accolti con un filo di ottimismo dal sindacato: per la Federazione lavoratori della conoscenza della Cgil “la lotta paga”, ma “se la legge di Bilancio non dovesse dare risposte, ci aspettiamo un intervento straordinario sulla scuola fin da gennaio”.
Di un certo rilievo l’annunciato accordo fra il ministero del Lavoro e quello dello Sviluppo economico sulle norme anti-delocalizzazioni: per le imprese non in crisi che chiudono gli stabilimenti in Italia, c’è solo un po’ più di burocrazia, l’obbligo di presentare piani di gestione degli esuberi e costi maggiorati con varie motivazioni. Probabilmente non è una materia sulla quale la gabbia delle norme europee lasci troppa libertà di intervento ai governi nazionali; ma bisognerà soppesare la soddisfazione del ministro leghista Giancarlo Giorgetti per la soluzione “ragionevole” che “non penalizza le imprese e tutela i lavoratori”. Il movimento contro le delocalizzazioni – la cui avanguardia più visibile è stata, in questi mesi, quella dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio – è solo all’inizio.