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Fisco, rivolta più che “rivoluzione”

Gli interventi legislativi messi in campo nel Consiglio dei ministri producono effetti concreti: spostano risorse, incidono sulla composizione sociale e sulle idee dominanti, che poi determinano anche il destino dei governi e delle forze politiche

17 Marzo 2023 Paolo Barbieri  689

“Una rivoluzione attesa da cinquant’anni”: per chi ripone fiducia nelle qualità rivoluzionarie del governo di destra-centro, indubbiamente, le parole che Giorgia Meloni ha usato per commentare il varo del disegno di legge delega sulla riforma del sistema fiscale potranno suonare rassicuranti, addirittura incoraggianti. “Terzogiornale” si colloca più naturalmente fra quanti tendono a un certo scetticismo in materia, ma stavolta è il caso di prendere molto seriamente il riferimento temporale indicato dalla presidente del Consiglio. Perché il mezzo secolo passato, a suo giudizio in vana attesa, in realtà è quello che ci separa dalla legge n. 825 del 9 ottobre 1971 e dal triennio successivo, nel quale videro la luce i decreti delegati di quella che ancora oggi il sito del ministero dell’Economia e delle Finanze definisce “La grande riforma tributaria” (ma se qualcuno se ne accorge, forse una manina provvederà a correggere cotanto orgoglio legislativo ormai passato di moda). Fine dell’intervento legislativo, secondo quanto spiega la stessa fonte governativa, fu quello di attuare le riforme “secondo i principi costituzionali del concorso di ognuno in ragione della propria capacità contributiva e della progressività” (articolo 53 della Costituzione, anch’esso non troppo apprezzato negli ultimi anni, e non solo dalla destra più a destra).

Ci sarà tempo per valutare in concreto i testi che saranno partoriti nel percorso di attuazione della delega fiscale, che deve passare il vaglio parlamentare, prima quello vincolante dell’approvazione della legge, poi quello dei pareri sui decreti delegati successivi coi quali l’esecutivo porta a termine la delega affidatagli da Camera e Senato. L’intervento legislativo ambisce a toccare praticamente l’intero impianto del sistema fiscale: Irpef, Iva, Ires, Irap e il sistema delle detrazioni, le cosiddette tax expenditures. Ma l’asse portante della riforma, dal punto di vista pratico come da quello simbolico, è l’obiettivo dichiarato di arrivare alla mitica flat tax, una tassa piatta, con percentuale di imposizione uguale per tutti a prescindere dal reddito prodotto. Storica bandiera della Lega e delle destre ultraliberiste di mezzo mondo, che si dichiara di volere istituire al termine della legislatura: il che consente anche un ragionevole margine di manovra, dal momento che la misura sarebbe per giudizio unanime insostenibile per le casse dello Stato; oltre a essere radicalmente anticostituzionale (se poi sarà anche in-costituzionale dovrà essere la Corte costituzionale a stabilirlo, chissà fra quanti anni e sempre che almeno la Consulta resista agli slanci “rivoluzionari” dei vincitori delle ultime elezioni). Il primo passaggio, intanto, sarà la riduzione a tre soli scaglioni della tassa sul reddito delle persone fisiche. Il tema lo abbiamo già trattato in più occasioni (per esempio qui e qui), ma è sempre il caso di ricordare che questo approdo estremo del dibattito sul regime tributario è solo l’esito ultimo di una tendenza, di una corrente sempre più vorticosa nella quale purtroppo siamo immersi da decenni (contrariamente a quello che sembra credere la presidente del Consiglio, quando parla di cinquant’anni di attesa). Lo stesso predecessore di Meloni, Mario Draghi, aveva promosso una “riformetta”, poi rimasta incompiuta per la caduta del suo governo, forse meno ambiziosa di quest’ultima, ma comunque improntata a una ulteriore semplificazione, lo strumento che da tanti anni si utilizza per attenuare la progressività.

Per tornare alle parole iniziali di Meloni, i cinquant’anni trascorsi, per il governo in carica, non sono stati di attuazione di quei principi, ma di lunga e sempre frustrata attesa della loro riforma, se non addirittura abrogazione. Abbracciando il ribellismo fiscale dei ceti imprenditoriali e di larghe fasce del lavoro autonomo, tradizionale patrimonio soprattutto di Forza Italia e Lega, Meloni compie forse un altro passo per assumere su di sé la rappresentanza dell’intera coalizione. Nel momento in cui vedono trionfare le loro storiche battaglie contro lo Stato “oppressore” e per la flat tax, paradossalmente i due partner governativi rischiano di vedersi succhiare una quota di linfa vitale dai loro rispettivi bacini elettorali. Mentre Meloni sembra voler sostanziare in modo più ampio quel “riscatto” del quale parlò nel suo primo discorso post-elettorale: non più solo dei militanti di destra (neo o postfascisti) per decenni rimasti ai margini del potere democratico. Il riscatto che Meloni promette è anche per quelle fasce sociali storicamente ostili all’espansione dei diritti dei lavoratori, del welfare, dell’uguaglianza sociale affidata dalla Costituzione all’azione progressiva dello Stato per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Azione che non è realistico immaginare senza un fisco progressivo (e forse anche altri elementi oggi dimenticati, come un sistema industriale misto pubblico-privato).

Naturalmente una prospettiva “benaltrista” ci potrebbe ricordare che, nel triennio della pandemia, i miliardari sono aumentati di numero e la somma delle loro ricchezze è cresciuta enormemente, mentre si è indebolita la quota di ricchezze detenuta dal lavoro salariato e dai “poveri”, in generale. Inoltre, che la trasformazione in atto sta spostando la produzione di ricchezze in direzioni un tempo inimmaginabili: i ricchi non lavorano, si dice, non producono. Le grandi multinazionali dell’era digitale sono ormai in grado di influire (se non di decidere) sull’esito delle guerre ma non producono sviluppo. Quindi un sistema fiscale incentrato sulla ricchezza da lavoro, sia che il pendolo vada a favore dell’area dell’elusione e dell’evasione (come pare il caso del quale si discute in questi giorni) sia che invece punti a restringerla e tassarla in modo efficace, resta comunque un sistema superato.

Ma in ogni caso, che siano riforme, rivolte o “rivoluzioni”, come sostiene Meloni, questi interventi legislativi producono effetti concreti: spostano risorse, incidono sulla composizione sociale e sulle idee dominanti, che poi determinano anche il destino dei governi e delle forze politiche. Nonostante tutto, quindi, forse bisogna iniziare a valutare seriamente l’effettiva dimensione della sfida che l’assetto politico sortito dalle elezioni rappresenta. È un compito non rimandabile per chiunque intenda opporsi, dentro e fuori dalle istituzioni. Chiunque pensi che la saldatura di una coalizione sociale così ampia possa essere contrastata con gli scandaletti o l’indignazione sui social network per le gaffe di dirigenti nostalgici del Ventennio e ministri palesemente inadeguati al ruolo, andrebbe messo ai margini in fretta, se non del tutto escluso, dal dibattito pubblico. Altrimenti l’orizzonte di questa legislatura rischia di perpetuarsi ben oltre un singolo lustro.

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