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Home » Interviste » La manovra del governo Meloni: sotto i numeri niente

La manovra del governo Meloni: sotto i numeri niente

Parla l’economista Roberto Romano. Nelle dichiarazioni pubbliche si tenta di accreditare l’immagine di un Paese in forte crescita, e si promettono battaglie europee. Ma basta spulciare le cifre dei documenti ufficiali per capire che il re è nudo. Non è più sicura neppure la realizzazione dei progetti del Pnrr

17 Aprile 2023 Paolo Andruccioli  469

Romano, il governo ha presentato il Documento di programmazione economica e finanziaria esaltando gli elementi di crescita del Pil e del risanamento dei conti pubblici. Sono realistiche le previsioni di crescita dello 0,9%? Nelle carte presentate si prevede anche una decelerazione per i prossimi anni. Come stanno davvero le cose?

Il Def presentato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è la sintesi più chiara della politica economica del governo e rende palese l’impreparazione della stessa compagine governativa. Sebbene la campagna elettorale non avesse brillato per contenuti economici, politici e progettuali – sul punto nessuno è meno colpevole di altri, destra e sinistra – emerge ancora una volta l’assenza di una politica economica e l’utilizzo di luoghi comuni che dimostrano quanto la politica sia distante dai grandi temi e problemi che si devono affrontare. Se il Pil, il tasso di disoccupazione e la bilancia commerciale programmatici coincidono sostanzialmente con i dati tendenziali – cioè proiezioni che non incorporano le misure che il governo intende realmente adottare – dai documenti presentati emerge soltanto il come e il quanto di quello che non si farà.

La propaganda di questi giorni ci dice il contrario. Si afferma che finalmente si farà sul serio, dopo gli insuccessi dei governi precedenti, su cui si scaricano tutte le colpe. Qual è il giochetto tra tendenziale e programmatico?

Mi rendo conto che le interviste dei rappresentanti della maggioranza possono sembrare roboanti, un atteggiamento che mal si concilia con il governo del Paese, ma i numeri del Def dicono che non cambierà nulla, e se cambierà qualcosa, questo “cambiamento” sarà piccolo piccolo. Forse sarebbe più corretto dire insignificante. Per dare contezza dello sforzo del governo su crescita, occupazione e disoccupazione, come differenza tra tendenziale (variazioni a legislazione vigente) e programmatico (cioè gli obiettivi che si danno modificando le norme vigenti), abbiamo tra il 2023 e il 2026 una crescita aggiuntiva di 0,2 punti di Pil; 0,1 per l’occupazione e nessun miglioramento del tasso di disoccupazione. C’è poi un piccolo ma importante numero: la bilancia commerciale peggiora di 0,1 punti tra tendenziale e programmatico. Poca roba, ma visto con gli occhi dell’economista di struttura, significa che la crescita dello 0,1 di Pil riduce il saldo della bilancia commerciale (nella contabilità nazionale è un conto nel quale viene registrato l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni di merci di un Paese. Il suo saldo corrisponde alla differenza tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni di merci). Per chi studia l’economia nazionale e il suo sistema industriale il dato indicato dal governo Meloni sulla bilancia commerciale è un pugno nello stomaco, anche per i più convinti keynesiani: se aumenta la domanda interna, aumentano infatti le importazioni in misura equivalente. Non basta dunque aumentare la spesa pubblica. Bisogna programmarla.

Tabella1

Quadro macroeconomico tendenziale: variazioni percentuale salvo altre indicazioni, 12 aprile 2023
 20222023202420252026
Pil3,70,91,41,31,1
Deflatore Pil34,82,722
Deflatore consumi7,45,72,722
Pil nominale6,85,74,23,43,1
Occupazione ULA unità standard3,50,910,90,8
Tasso di disoccupazione8,17,77,57,47,2
Bilancia di parte corrente-0,70,81,31,61,6
Quadro macroeconomico programmatico: variazioni percentuale salvo altre indicazioni, 12 aprile 2023
 20222023202420252026
Pil3,711,51,31,1
Deflatore Pil34,82,722
Deflatore consumi7,45,72,722
Pil nominale6,85,84,33,43,1
Occupazione Ula unità standard3,511,10,90,8
Tasso di disoccupazione8,17,77,57,47,2
Bilancia di parte corrente-0,70,81,21,61,6

Per quanto riguarda le scelte di politica economica il governo è stato costretto a fare i conti con le risorse scarse e ha deciso di rimandare molte delle riforme annunciate in campagna elettorale. Sul fisco si punta tutto sul taglio del cuneo fiscale. Sarà una scelta che favorisce i redditi da lavoro? La strada rimane comunque quella della flat tax che i sindacati criticano. Si favoriranno di nuovo i redditi alti?

Non credo che il governo abbia deciso di rimandare le riforme più importanti. Credo che il governo non abbia nessuna vera riforma in cantiere. Mi spiego meglio. Se ci fosse una qualsiasi seria riforma (qui non giudico e non discuto il termine “serio”), un qualche movimento dei saldi di finanza pubblica si dovrebbe pur vedere. In realtà, il quadro tendenziale, in assenza di politiche pubbliche, e quello programmatico coincidono. Sempre tra il 2023 e il 2026, il governo afferma di recuperare 0,3 punti di Pil, un punto di Pil vale più o meno venti miliardi di euro, e questa grandezza finanziaria dovrebbe provvedere alla riforma fiscale, alla riduzione del cuneo, alla riforma previdenziale, al ponte sullo stretto di Messina, all’adeguamento dei salari della pubblica amministrazione, alla messa a terra del Pnrr? Si potrebbe andare avanti ancora.

Qual è dunque il punto?

La domanda non suona retorica e vale per destra, sinistra e, direi, anche per le parti sociali. All’interno della attuale architettura finanziaria non c’è trippa per gatti. La riduzione delle tasse (Irpef, Irap, Ires e cuneo fiscale) è impossibile, a meno che non si vogliano intaccare i servizi pubblici più o meno gratuiti (sanità, scuola, ammortizzatori sociali e previdenza). In altri termini, con nove miliardi di euro spalmati su più anni non si fa nessuna riforma, e tanto più una riduzione delle tasse. Inoltre, vorrei fare osservare che il servizio del debito, gli interessi sul debito pubblico, è ancora calcolato sulla base di tassi di interesse che non incorporano i recenti aumenti dei tassi decisi dalla Fed e dalla Bce. I numeri parlano e restituiscono la realtà: il governo non ha la più pallida idea di cambiare le cose. Certamente qualche intervento nominativo non si nega a nessuno, ma la sostanza è quella di una finanza pubblica che ricalca quella di Draghi e le indicazioni della Commissione europea. Siamo in Europa e i conti con l’Europa li dobbiamo pur fare, ma anche qualche riforma nella pubblica amministrazione concordata con l’Europa dobbiamo pur farla. In tutta franchezza, se non aumentiamo i dipendenti pubblici di almeno 500.000 unità – si badi, non di economisti ma di ingegneri, tecnici della digitalizzazione, aggiungerei anche di personale medico e infermieristico e scolastico – il Pnrr resta un libro di pura fantasia. Il primo libro di fantasia che mi viene in mente è Peter Pan. Il Paese e chi lo governa sembrano non voler crescere mai. Il punto è che quelle risorse sarà anche difficile “metterle a terra”, ovvero tradurle in opere realizzate. Mancano prima di tutto le risorse umane. Già dalla fase della progettazione.

Tabella 2

Conti pubblici, DEF Governo Meloni per 2024 e successivi anni
 Tendenziale, 12 aprile 2023
 20222023202420252026
indebitamento netto-8-4,4-3,5-3-2,5
saldo primario-3,6-0,60,51,22
interessi passivi4,43,74,14,24,5
indebitamento strutturale-8,6-4,9-4,1-3,7-3,2
variazione strutturale-0,23,60,90,40,5
debito pubblico lordo sostegni144,4142141,2140,8140,4
debito pubblico netto151,5139,2138,5138,3137,9
 Programmatico, 12 aprile 2023
 20222023202420252026
indebitamento netto-8-4,5-3,7-3-2,5
saldo primario-3,6-0,80,31,22
Interessi passivi4,43,74,14,24,5
indebitamento strutturale-8,5-4,9-4,1-3,7-3,2
variazione strutturale-0,23,60,90,40,6
debito pubblico lordo sostegni144,4142,1141,4140,9140,4
debito pubblico netto141,5139,3138,7138,3138

Sulle pensioni assistiamo a una marcia indietro rispetto agli annunci del superamento della legge Fornero. Quota 41 sembra accantonata e la trattativa con i sindacati non ha fatto passi avanti. Niente riforma delle pensioni?

La riforma delle pensioni è certamente necessaria, ma quanti vogliono veramente intervenire? Il punto non è solo l’introduzione di una qualche flessibilità, che tornerebbe utile a tutti (imprese e sindacato), piuttosto come possiamo garantire nel tempo pensioni dignitose a tutti i giovani che oggi hanno retribuzioni prossime alla soglia di povertà. Stiamo preparando e costruendo una bomba sociale che, in un modo o nell’altro, a suo tempo, dovrà essere affrontata. Altro che riduzione del cuneo fiscale; piuttosto dobbiamo ri-progettare un sistema previdenziale attrezzato per evitare che i giovani poveri di oggi restino poveri anche domani. Sul punto, richiamo il lavoro degli amici Felice Roberto Pizzuti e Michele Raitano che, con pazienza e devozione, continuano a studiare questo fenomeno. Peccato che sono inascoltati e qualche volta derisi. Diciamola tutta: è possibile fare una vera riforma previdenziale senza riformare anche il sistema della previdenza integrativa? Molti anni addietro io e l’amico Pizzuti avevamo suggerito un principio di libera scelta: un lavoratore potrebbe destinare il suo Tfr alla previdenza pubblica o complementare. Com’è noto oggi il lavoratore ha solo una scelta: o mantenere il suo Tfr in azienda per riprenderselo alla fine come liquidazione, oppure destinarlo al suo fondo pensione integrativo di categoria. Oggi la scelta di destinare l’accumulo del Tfr all’Inps è negata. Se fosse almeno implementato questo principio liberale, una parte dei duecento miliardi di euro della previdenza complementare diventerebbero risorse per l’Inps, e garantirebbero degli assegni previdenziali più sostenuti e, soprattutto, non ci sarebbe la fuga all’estero di questo denaro che arricchisce gli altri Paesi, ma non l’Italia. Mi rendo conto che si tratterebbe di una riforma molto forte, ma lo stato dell’arte necessita di riforme forti a favore del lavoro, con buona pace di tutti quegli economisti che raccomandano l’utilizzo di questo strumento previdenziale complementare.

I partiti che compongono la maggioranza di governo hanno sempre contestato la politica dell’Europa sul deficit. Ora il governo si adegua senza ottenere alcun cambio di passo?

Diciamo che la discussione in Europa sulla riforma del Patto di stabilità e crescita è all’ordine del giorno. L’Italia, con questo governo, chiede che gli investimenti per la difesa non rientrino nel deficit. Scelta di piccolo cabotaggio e figlia di un certo odio per l’Europa. Se si critica l’Europa è il momento di costruire delle ipotesi di lavoro (vedi P. Maranzano, R. Romano, La riforma del Patto di stabilità e crescita europeo, in “sbilanciamoci.info”). Servirebbe un bilancio federale europeo e la cessione di potere fiscale (tasse europee). Non per un europeismo a buon mercato, ma perché è l’unica soluzione per salvare il progetto europeo che, diversamente, sarebbe stritolato tra Stati Uniti e Cina. Se qualcuno in un qualunque Paese europeo pensasse di potercela fare da solo, rispetto a questi colossi economici, avrebbe dei seri problemi “bipolari” e dovrebbe essere curato. Quindi, il punto non è l’assenza o meno di un deficit più alto o più basso; piuttosto quale ruolo i singoli Paesi europei vogliono giocare nella nuova geografia economica internazionale. La Germania, per quanto grande e forte possa percepirsi, rimane un nano economico internazionale, almeno rispetto a Stati Uniti e Cina. L’Italia non è nemmeno computabile.

Nei documenti presentati (ma anche nel dibattito economico internazionale) il nemico principale sembra essere ora l’inflazione. Le politiche messe in campo sono strumenti efficaci?

Se l’inflazione è un problema, soprattutto per i redditi più bassi (una volta si parlava di tassa sui poveri), è sorprendente come e quanto tutte le istituzioni del capitale non abbiano capito questa inflazione, che è poi agflazione (cioè aumento dei prezzi di tutte le commodities, ovvero particolari beni come il grano, energia, petrolio, gas, ecc.). Inoltre, una parte di questa inflazione è da profitti, almeno il 50%, ma nessuno sembra preoccuparsene. Vogliamo ridurre l’inflazione sul serio? Si chieda, via Europa, che i paradisi fiscali all’interno della stessa Europa concorrano alle spese europee per ridurre l’impatto della stessa inflazione, almeno da quando essa ha iniziato la sua crescita e fino a quando l’inflazione core (ovvero lo zoccolo duro dell’inflazione persistente, il “pavimento” su cui agiscono tutti i prezzi) non sarà tornata al 2%. Dobbiamo anche ricordare che alcuni fenomeni non possono essere gestiti da un solo Paese, in particolare quando l’inflazione è sostanzialmente importata. Se siamo preoccupati della perdita di potere di acquisto, perché non introdurre una riforma della contrattazione che abbia al suo interno non l’inflazione corrente ma almeno quella core? Perché non recuperare il pensiero di Ezio Tarantelli che, sul punto, avrebbe voluto governo, sindacati e imprese come agenti economici nel rispetto delle proprie responsabilità?

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Tagsbilancia commerciale Def 2023 Europa fisco governo meloni inflazione Paolo Andruccioli pensioni Pil Pnrr politica economica Roberto Romano Tfr

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