Luigi Marattin, muscolare presidente renziano della commissione Finanze della Camera, l’ha definita sul “Foglio” la riforma “che va bene soltanto in campagna elettorale”. La rissa, nella sua commissione che discuteva la delega fiscale è la prima crepa seria nella maggioranza di governo nelle ultime settimane, considerando che i mal di pancia dei 5 Stelle sulle armi all’Ucraina e sulla spesa militare non sembrano poter alterare gli equilibri politici: una crisi politica i gruppi parlamentari 5 Stelle non la digerirebbero facilmente. Non a caso, Mario Draghi, che aveva incontrato Giuseppe Conte ma senza dare troppo peso alle sue richieste di confronto – almeno secondo il suo predecessore oggi leader stellato –, ha aperto subito all’ipotesi di un incontro anche con Matteo Salvini e con Antonio Tajani, dopo che Forza Italia si è accodata alla Lega nella protesta contro il disegno di legge delega sul fisco.
Si tratta di un provvedimento sul quale, già in passato (ne avevamo parlato qui), la Lega aveva mosso le acque per ragioni più che altro simboliche; ma lo scenario economico è completamente stravolto da allora. E non bastano le battute del presidente del Consiglio sui condizionatori per rimuovere l’allarme del mondo delle imprese, e anche dei cittadini, a fronte della convergenza di tanti elementi negativi: inflazione, energia con i costi alle stelle e le scorte future in dubbio, blocco delle catene di fornitura, calo certo del Pil (andrà bene se non sarà un crollo, ma tutte le previsioni sulla ripresa sono in corso di revisione).
La Lega aveva provato a porre un problema di metodo: le leggi delega contengono i principi e i limiti entro i quali il governo eserciterà il suo potere legislativo. I testi dei decreti legislativi, elaborati successivamente dall’esecutivo, vengono poi sottoposti al parlamento per i prescritti pareri delle commissioni competenti; pareri che Salvini e i suoi stavolta avrebbero voluto rendere vincolanti, ma il governo li vuole solo consultivi e ha risposto picche. Sia perché non ha alcuna intenzione di sottoporsi nuovamente alle forche caudine della sua rissosa maggioranza per l’approvazione definitiva, sia perché le fatiche della politica, della mediazione, del confronto parlamentare non sono troppo nelle corde dell’ex presidente della Bce. Anche in questi giorni Draghi è tornato a battere sul tasto della necessaria, a suo giudizio, unità nazionale: del resto, è l’emergenza la legittimazione più forte della sua avventura politica, anche se ha cambiato nome, dal Covid-19 alla guerra.
Tra le varie questioni al centro dello scontro politico, quella di più facile lettura è la riforma del catasto. Lega e Forza Italia non accettano che i valori degli immobili siano anche adeguati al mercato. Fino a quando non si paga Imu per le comuni prime case, è una forma di pressione fiscale più stringente su chi dagli immobili ricava una rendita o li tiene inutilizzati, oppure ancora riesce a venderli a prezzi attuali; ma (anche se la Lega denuncia che inciderà sui valori Isee) non sembra una “patrimoniale”, come spesso si sente dire a destra. E la posizione contraria alla revisione dei valori catastali spesso difende rendite consistenti: quelle di chi possiede magari case o magazzini, il cui valore è semplicemente esploso negli ultimi decenni, nei centri storici metropolitani che un tempo erano quartieri popolari, o abitati dal ceto medio impiegatizio. Ma è lo stesso governo a negare l’oggetto del contendere: secondo palazzo Chigi “il provvedimento non porta incrementi sull’imposizione fiscale degli immobili regolarmente accatastati”. Ci sarebbe molto da fare su quelli non “regolarmente accatastati”; ma abusivismo ed evasione sono temi sensibili, tradizionalmente, per i partiti che sono insorti.
Ad ogni buon conto, il governo giura, tramite i suoi portavoce, che “nessuno pagherà più tasse. Il governo non tocca le case degli italiani. E lo stesso sarà per gli affitti e per i risparmi”. Qui però si arriva al secondo corno del problema: l’intervento sulla rendita mobiliare e immobiliare. Mentre la legge delega prevede una “semplificazione” della tassazione Irpef che migliorerà – o comunque non peggiorerà – il trattamento fiscale per le fasce medio-alte di reddito (qui qualche considerazione di “terzogiornale” sul tema, qui la segnalazione di una ricerca più ad ampio raggio sulla pressione fiscale reale), il testo all’esame della Camera si propone di uniformare in due tappe le tasse sugli affitti e sulle rendite finanziarie come titoli pubblici o plusvalenze di Borsa. Dal 10% della cedolare secca sugli affitti (quelli a canone concordato) e dal 12,5% sui titoli di Stato, si passerebbe in una prima fase al 15%, poi al 23 – per ora solo un’ipotesi indicativa – come aliquota unica, anche per i guadagni da capitale (plusvalenze e cedole) oggi tassati al 26.
Si tratta, come si vede, di una discussione prevalentemente interna agli interessi dei ceti medio-alti, oltre che dei grossi agglomerati finanziari. È possibile che venga risolta coprendo qualche aumento di tasse giustificato dalla guerra, cui sembra alludere il segretario del Pd, Enrico Letta, quando accusa la destra di “montatura propagandistica”, e avverte che “gli unici aumenti che subiamo e rischiamo di subire hanno un solo responsabile, Putin e la sua guerra”. Finora, comunque, non ci sono grandi segnali di interesse a farne l’occasione per avviare sul serio quella lotta alle disuguaglianze, in drammatico aumento nell’ultimo biennio secondo tutte le rilevazioni statistiche, della quale in tanti si riempiono la bocca in occasione di convegni e comizi elettorali.