Se nel 1961 Eisenhower metteva in guardia contro il pericolo dell’ingerenza negli affari politici del complesso militare-industriale statunitense, che mettere i profitti al di sopra degli interessi nazionali, spingendo verso la creazione di scenari bellici sempre nuovi, oggi assistiamo alla dimostrazione di forza del complesso militare-tecnologico-finanziario. Così la cybersecurity si muove secondo gli interessi geopolitici: i “tech-oligarchi” statunitensi (come Peter Thiel, che tiene conferenze private sull’Anticristo) dirigono la corsa agli armamenti con teorie da brividi sull’apocalisse, mentre le società legate alla difesa difendono le scelte produttive con le necessità della pura ricerca scientifica.
In questi giorni, alla Nuvola di Roma, si tiene Cybertech Europe 2025, l’appuntamento globale dedicato alla cybersecurity, in cui si discute di intelligenza artificiale, difesa europea e, cosiddetta, “resilienza digitale”. La conferenza – la cui edizione mondiale si terrà a Tel Aviv nel 2026 – mette a confronto leader internazionali, istituzioni e imprese sulle strategie per affrontare le nuove minacce virtuali.
Sono chiare le effettive necessità di protezione rispetto ad attacchi virtuali e sicurezza dei dati; a essere contestata, tuttavia, è la palese commistione dell’ambiente cyber con le tecnologie non tanto di difesa, quanto di controllo, legate alla guerra, all’apartheid in Cisgiordania e al genocidio a Gaza. Tra gli sponsor, figura Cisco che, con la sua lunga collaborazione con l’esercito israeliano, fornisce l’infrastruttura tecnologica per automatizzare l’apartheid nei territori palestinesi occupati, mediante sistemi avanzati di sorveglianza. Non mancano neanche le start-up israeliane: sarà presente Check Point Software Technologies Ltd, strettamente legata all’apparato militare e di sicurezza del Paese, che collabora con imprese belliche come Israel Aerospace Industries (Iai), produttrice di droni impiegati nei bombardamenti su Gaza. Il tutto in una cornice estremamente istituzionale, in cui, per citarne uno, tra i relatori spicca Mike Pompeo, ex direttore della Cia. Insomma, Roma accoglie volentieri, ancora una volta, un sistema globale di militarizzazione e sorveglianza basato sull’innovazione tecnologica, ma alimentato da lobby legate al militarismo. Di fronte a una tanto evidente complicità istituzionale e industriale, le realtà solidali con il popolo palestinese hanno chiamato a una mobilitazione, martedì 21 ottobre.
Dietro la progressiva militarizzazione del sapere scientifico e tecnologico, con università e centri di ricerca trasformati in fornitori di competenze per la difesa, ci sono gli interessi delle aziende. Sono molte e molti i professionisti, accademici e ingegneri, infatti, ammaliati dalla possibilità che danno le imprese, come la Leonardo Spa, di svolgere ricerche sperimentali ottenendo i fondi adatti a innovazioni scientifiche all’avanguardia. Addirittura l’anno scorso, al termine di un corteo per la Palestina, ci è capitato di parlare con un fisico teorico, interessato, nonostante le remore, a un progetto che coinvolgeva l’azienda di armamenti. L’edizione 2024 di Cybertech Europe era stata promossa proprio dalla Leonardo Spa, che, attirando le menti migliori del nostro Paese e non solo, si inserisce perfettamente nella traiettoria del riarmo europeo, trainato dal piano “ReArmEurope” e dalla crescente spesa militare nazionale, che nel 2025 ha raggiunto livelli record.
Contro questa logica – e con lo slogan “non in mio nome, non con il mio lavoro” – un gruppo di lavoratrici e lavoratori, sostenuto dalla Fiom Cgil dello stabilimento di Leonardo Spa di Grottaglie, vicino a Taranto, ha lanciato una petizione per chiedere la sospensione di tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento con istituzioni israeliane, start-up, università ed enti di ricerca direttamente o indirettamente coinvolti nelle operazioni militari contro la popolazione palestinese. Una richiesta che è insieme un atto politico e un moto di coscienza: “Basta armi per Israele, investiamo nel civile”. Nel comunicato che accompagna la petizione, la Fiom torna a chiedere investimenti nell’aeronautica civile, e mette in guardia dal rischio che Leonardo si trasformi in un’azienda esclusivamente militare. “I primi a pagare il prezzo di un’economia di guerra sono sempre le lavoratrici e i lavoratori” – si legge nella nota, che richiama anche le mobilitazioni dei portuali di Genova e Livorno contro il traffico di armamenti diretti verso i teatri di guerra (tra l’altro illegittimo, secondo la legge 185 del 1990, che vieta esplicitamente il commercio verso Paesi in guerra). Lo stabilimento pugliese, nato come polo dell’aeronautica civile, partecipa oggi a programmi legati alla difesa e alla produzione di droni militari, come la recente joint venture tra Leonardo e la turca Baykar per la costruzione di velivoli senza pilota.
La protesta di Grottaglie, tuttavia, ha spaccato il fronte sindacale. La Uilm ha subito diffuso un comunicato in cui, pur ribadendo la vicinanza al popolo di Gaza, ha difeso la scelta industriale dell’azienda, ricordando che il sito tarantino ha vissuto anni di cassa integrazione, e che la riunificazione tra le divisioni Difesa e Aerostrutture, avvenuta nel maggio 2025, ha rappresentato “un importante traguardo per la salvaguardia dell’occupazione”. Si tratta del solito compromesso, un ricatto lavorativo che riguarda sia i settori produttivi sia quelli della ricerca.
A fare da sfondo alle lotte dei lavoratori, c’è il quadro delineato dal dossier “Piovono euro sull’industria necessaria di Crosetto e Leonardo S.p.A. – Le relazioni con Israele”, pubblicato il 6 ottobre da Bds Italia (“Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele”), firmato da Rossana De Simone. Il documento mostra come Leonardo, la principale industria militare italiana, mantenga relazioni ininterrotte con Israele, attraverso una rete di joint venture, partecipazioni e forniture tecnologiche. La controllata statunitense Leonardo Drs si è fusa, nel 2022, con Rada Electronic Industries Ltd., azienda israeliana che produce radar tattici e sistemi di protezione attiva, con sedi in Israele. Il dossier elenca anche collaborazioni con le aziende israeliane Rafael, Elbit Systems e Israel Aerospace Industries, tutte imprese coinvolte nella produzione di droni e sistemi d’arma utilizzati nelle offensive a Gaza.
Partecipata per circa il 30% dal ministero dell’Economia – e per il resto in mano a investitori internazionali, tra cui l’ormai celebre fondo statunitense BlackRock –, Leonardo ha chiuso il 2024 con ricavi per 17,8 miliardi di euro, di cui oltre il 70% provenienti dal settore militare e governativo. Tuttavia, come osserva De Simone, l’espansione del comparto, le crescenti commesse, le partnership, i fondi pubblici e le agevolazioni fiscali non hanno generato nuova occupazione stabile. Negli stabilimenti del Sud, da Pomigliano a Grottaglie, si continua a lavorare a singhiozzo, e la promessa della diversificazione produttiva resta legata quasi sempre a progetti militari. “Le guerre aumentano i profitti, ma non il lavoro” – si legge nel rapporto.
La protesta dei lavoratori di Grottaglie non riguarda solo la complicità nel genocidio in Palestina, ma parla di lavoro, responsabilità e democrazia industriale. Si deve mettere in discussione il principio, dato per scontato, che il futuro dell’occupazione passi necessariamente attraverso il riarmo, e denunciare un modello economico che lega i destini dei territori alla logica della guerra permanente. In un’Italia che si definisce alleato strategico di Israele, e che continua a finanziare la propria industria bellica con risorse pubbliche, il segnale lanciato dai lavoratori è di rottura, un monito che va oltre la solidarietà. Perché, come scrive Bds Italia nelle pagine finali del suo dossier, “in un mondo in cui la guerra è considerata necessaria all’economia, chi si oppone non è un pacifista ingenuo, ma un lavoratore che difende il futuro”; e lo fa denunciando la filiera produttiva della morte che, da Roma fino alle fabbriche del Sud, alimenta il complesso militare-tecnologico-finanziario globale.










