
Nella lunga lista di Paesi cui il presidente americano Trump ha imposto dazi, l’Africa conta per quasi la metà, anche perché è il continente che ha il maggior numero di Stati al mondo, mentre i ventisette dell’Europa figurano nella lista come una sola entità. La stragrande maggioranza dei Paesi africani è colpita da dazi al 10%. Quello che è interessante, e talvolta sorprendente, è la classifica dei “cattivi africani” che Trump ha stilato.
In testa alla lista, c’è il Lesotho con dazi del 50%. Cosa ha da temere Trump dalla piccola monarchia enclave del Sudafrica? Ben poco se stiamo ai fatti, anche se Trump, nella sua ormai mediatizzata tabella, calcola uno squilibrio del Lesotho verso gli Usa al 99%! Certo, il Lesotho importa molto poco dagli Stati Uniti, ma non sono certo i 228 milioni di dollari di esportazioni (essenzialmente T-shirts e tessili) a mettere in crisi l’economia americana. Il Trump, king of America, sembra avere semplicemente nascosto, con questi dazi, una vendetta per la reazione indignata di re Letsie III alle sue parole. Un mese fa, davanti al Congresso, Trump, per sostenere la decisione di annullare gli aiuti umanitari, aveva infatti affermato che nessuno aveva mai sentito parlare del Lesotho, che riceveva invece otto milioni di dollari per promuovere la comunità Lgbtq+.
Gli americani dovranno probabilmente fare a meno anche della vaniglia del Madagascar. Il Paese africano esporta oltre sei volte di quanto non importi dagli Usa, e la vaniglia rappresenta un quinto dell’export verso gli Stati Uniti, il principale partner dell’economia malgascia. Il dazio del 47% la frenerà dunque in maniera consistente, ma gli americani si rifaranno con la vaniglia ugandese, tassata solo al 10%.
Il Sudafrica è il principale esportatore africano verso gli Stati Uniti, che importano (platino, automobili e componentistica) circa tre volte tanto di quanto esportano (idrocarburi e aeronautica, anche militare) verso il gigante industriale africano. Per Pretoria il gioco d’azzardo dei dazi al 30% potrebbe essere pesante, specie sull’industria automobilistica. Forse il gioco peserà ancora di più delle minacce lanciate da Musk contro il Sudafrica, dov’è nato, per la recente legge che favorisce l’acquisizione di terre da parte dei sudafricani neri, esclusi dal regime di apartheid dal possesso delle migliori terre. L’amministrazione statunitense sta anche studiando la possibilità di dare ospitalità ai sudafricani bianchi che decideranno di lasciare il Paese e installarsi negli Usa; intanto, deciderà a breve sulle barriere all’accesso di persone provenienti da una ventina di Paesi africani.
Con dazi all’11%, Trump sembra invece volersi garantire l’approvvigionamento del cobalto e di altri minerali strategici dalla Repubblica democratica del Congo. I diamanti sono la principale merce di scambio tra gli Usa e il Botswana, con un commercio reciproco di import-export che vede, però, prevalere largamente il Botswana; i dazi al 37% vogliono riequilibrare dunque l’attuale scambio. Tra le materie prime strategiche, il petrolio africano gioca un ruolo importante nella politica di Trump, e i dazi a Paesi come l’Algeria (30%), la Libia (31%), l’Angola (32%) mirano a limitare proprio le importazioni di idrocarburi per ridurre la dipendenza e favorire l’industria estrattiva americana. Trump traduce così il celebre drill baby, drill, pronunciato al momento del suo insediamento.
Il gioco dei dazi, però, è soprattutto un azzardo per Trump. E per la Cina, che sta racimolando tutto quello che può sul continente africano, è una manna insperata. Gli strateghi della Casa Bianca, pur ossessionati dalla Cina, non sembrano avere preso in considerazione questo aspetto. Al momento, il problema della collocazione dell’Africa nel nuovo scenario internazionale che Trump sta disegnando non sembra interessare, così come quello della sicurezza. Quest’ultimo tema, a cui diverse amministrazioni americane avevano prestato una certa attenzione, resterà comunque cruciale per la politica americana davanti al persistere del jihadismo islamista, specie nel Sahel, alla forte espansione della presenza militare russa, turca e cinese nel momento in cui i militari francesi sono stati costretti a ritirarsi dalla maggior parte dei Paesi africani.
Intanto, almeno Musk guarda con molto interesse al continente perché vuole vendergli il suo sistema Starlink. Ma anche la Casa Bianca dovrà presto ritornare a una visione globale, perché entro il 2025 scade l’African Growth and Opportunity Act (Agoa), il programma che consente a una trentina di Paesi dell’Africa sub-sahariana di esportare verso gli Usa circa 1.800 prodotti senza pagare dazi. L’amministrazione Trump, quindi, dovrà prendere la decisione se rinnovare il programma, a quali Paesi e a quali prodotti applicarlo. Sarà da questo momento che capiremo meglio quale strategia Trump abbia per l’Africa, ammesso che ne abbia una.