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Guerra in Ucraina: ma chi manovra l’aumento dei prezzi?
Il declino degli Stati Uniti nel “secolo lungo”
Si assiste al lento declino di quella che fu la potenza egemone della seconda metà del Novecento. Un processo che sarebbe forse addirittura dirompente, se non fosse attutito dal “secolo lungo”, cioè dalla permanenza, in questo primo scorcio del Ventunesimo, delle contraddizioni – ovvero delle ragioni di scontro a livello internazionale – ereditate dal Ventesimo secolo. C’è qualcosa di paradossale in una politica estera come quella dell’amministrazione Biden, che si preparava a una guerra fredda con la Cina – basata su una competizione economica, oltre che sulla dissuasione militare –, e che invece si è trovata ad affrontare una questione caldissima come quella dell’invasione dell’Ucraina, la quale proviene dritto dritto dalla storia di lungo periodo della dissoluzione del mondo sovietico e delle sue guerre intestine. Qualcosa di paradossale ma anche di provvidenziale. Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno sempre avuto bisogno di essere un “impero del bene” contro un “impero del male”: è consustanziale alla stessa nozione di “Occidente libero” che ci sia, dall’altra parte, un mondo oscuro e oppressivo cui contrapporsi. Se Putin non si fosse palesato da sé come quel maniaco panrusso capace di un bullismo geopolitico fondato sul possesso dell’arma nucleare, si sarebbe quasi dovuto inventarlo, come in passato si sono costruiti altri mostri (un nome fra tutti, quello di Saddam Hussein, da piccolo despota locale promosso a minaccia planetaria), al fine di dare carburante propagandistico a una potenza sempre più priva di missione.
Così una Nato che vivacchiava tra la perdita di senso in Europa e la sconfitta in Afghanistan, è ritornata prepotentemente in auge, e perfino Paesi come la Svezia e la Finlandia ora chiedono di entrarvi. Nell’interesse degli Stati Uniti, la guerra in Ucraina deve durare – sebbene i suoi obiettivi non possano essere affatto chiari, mentre solo con una specie di “pari e patta”, spingendo Putin a un tavolo “di pace”, si potrebbe arrivare a indebolirlo politicamente, rendendo evidente – anzitutto agli occhi degli stessi russi – come sia negativo il bilancio, in termini di distruzioni e perdita di vite umane, dell’aver messo le mani su una porzione di territorio, in fin dei conti, limitata.
Scholz, “Hesitation Blues”
La colonna sonora che potrebbe degnamente accompagnare gli ultimi travagliatissimi mesi del governo di Olaf Scholz, è forse quella di un celebre e strascicato blues. Eppure il cancelliere Scholz non è uomo da poco: è noto per rispettare gli impegni, come ricorda tutto il suo percorso di amministratore e di politico, che gli è valso il soprannome di “Scholzomat”, curiosa fusione tra il suo nome e bancomat, a ribadirne l’affidabilità.
Da mesi, però, sulla guerra ucraina Scholz nicchia: cerca disperatamente di prendere tempo, di evitare un coinvolgimento troppo massiccio della Germania nella fornitura di armi pesanti, anche quando è messo sotto pressione dalla Unione europea e dall’alleato americano. Sulle stesse sanzioni è stato oltremodo guardingo, ha difeso fino a che ha potuto il gasdotto Nord Stream II, che collega direttamente Russia e Germania, e si è opposto all’embargo completo del gas russo. Difficile ridurre questo balletto a una componente caratteriale, come fa spesso la stampa conservatrice tedesca, che non ha risparmiato gli insulti e le accuse di irresolutezza – e come ha fatto anche l’economista americano Paul Krugman in un editoriale velenoso pubblicato sul “New York Times”, nello scorso aprile, in cui dava a Scholz dell’allarmista e insinuava che ci fosse una mancanza di coraggio dietro la riluttanza del cancelliere ad accettare i sacrifici che i tedeschi dovrebbero affrontare come conseguenza dell’applicazione delle sanzioni. L’ambasciatore ucraino in Germania, Andrii Melnyk, già noto per alcune sue uscite piuttosto brusche, ha dichiarato senza mezzi termini che Scholz è un “uomo senza spessore”, inadeguato al suo compito di guida di un grande Paese, che sta “facendo melina” sulle armi con procedure di rallentamento burocratico, e che si muoverebbe quindi come una sorta di “quinta colonna” dei russi.
I “proiettili comunicativi”, la guerra e la Germania
Tra le teorie della comunicazione più accreditate negli anni Venti del Novecento, c’era quella del proiettile, secondo cui il pubblico sarebbe poco più che un passivo bersaglio da colpire in maniera mirata con determinate informazioni per influenzarlo, tacendone altre. Il riferimento era a una comunicazione politica nata in tempi di guerra, durante il primo conflitto mondiale, con figure di prim’ordine come Walter Lippmann a organizzare e coordinare un giornalismo bellico in procinto di liquidare l’approccio romantico e populista di molto giornalismo di reportage di inizio secolo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando venne introdotta la teoria della “comunicazione proiettile”, anche detta ipodermica per l’idea di “iniettare” contenuti in un pubblico pressoché completamente supino. I metodi per condizionare le masse si sono sviluppati e sono divenuti più raffinati a partire da fondamenti sistematici e scientifici – e non si limitano più a ricorrere alla censura, alla repressione o alla imposizione di specifici contenuti selezionati a scapito di altri, ma insistono sulla reciprocità, sul coinvolgimento e sull’attivazione di chi riceve il messaggio. Il Ventesimo secolo ci ha lasciato in eredità l’ascesa di un sistema di industrie tecnico-scientifiche che si occupano della produzione di informazioni, rivolto a orientare la sfera pubblica, e l’espansione di un ceto di intellettuali a esso legato, con la formazione di veri e propri imperi dei media, che sono allo stesso tempo imperi economici e imperi politici. Ai giornalisti spetta, per lo più, un ruolo prevalentemente impiegatizio, di trasmissione e di divulgazione di contenuti spesso pre-selezionati. Un apparato inquietante e in continua espansione, che, nell’epoca in cui i media sono diventati anche social media, assume sempre più i tratti di una macchina che più che persuadere vuole produrre soggettività, modellare personalità, influenzando i gusti e costruendo mondi in cui ci si possa riconoscere, bolle di riferimento…
Massimo D’Alema e le armi
Germania-Russia, relazioni pericolose
Le parole aspre che Zelensky ha rivolto ai tedeschi subito dopo la diffusione delle immagini dei civili morti a Bucha – “questo è il bel risultato cui hanno condotto quattordici anni di vostre concessioni ai russi” – hanno suscitato molto clamore in Germania. Le parole del presidente ucraino erano evidentemente indirizzate alla gestione Merkel della questione ucraina. Quattordici anni fa, a Bucarest, furono proprio Merkel e l’allora presidente francese Sarkozy a decidere che, per non provocare i russi, la Nato rinunciasse ad allargarsi a Est fino a includere l’Ucraina. A giudizio non solo di Zelensky, ma anche di alcuni quotidiani tedeschi, si sarebbe trattato di una valutazione drammaticamente errata, le cui conseguenze sarebbero divenute oggi evidenti. Merkel ha peraltro risposto seccamente che continua a ritenere che le scelte fatte a Bucarest nel 2008 fossero giuste, rifiutando ulteriori commenti; e i vertici del suo partito, la Cdu, l’hanno difesa, sostenendo che quella politica era perfettamente adeguata ai tempi.
Altro errore che viene imputato al governo Merkel è quello di avere impedito, dopo il 2014 e l’annessione della Crimea, di vendere armi alla Ucraina. Viene tirato in ballo lo stesso progetto del gasdotto Nord Stream 2, fortemente voluto e supportato anche da parte socialdemocratica, che avrebbe avuto come obiettivo geopolitico non solo quello di rafforzare i rapporti tra Germania e Russia, ma – tagliando fuori l’Ucraina dal passaggio del gas – avrebbe implicitamente avallato la politica del Cremlino di ampliamento progressivo dei confini occidentali. Pure il presidente polacco Morawiecki non risparmia le critiche ai tedeschi, che avrebbero permesso per quindici anni alla Russia di rafforzarsi e di accrescere il proprio potere e la sua presenza economica in Europa come fornitrice di energia e di materie prime.
Il fondamentalismo binario dell’Occidente
Il chiacchiericcio sulle armi e il vincolo della deterrenza
Guerra in atto e pandemia niente affatto conclusa rendono le polemiche italiane sull’aumento delle spese militari un chiacchiericcio. Ci sarà l’ennesimo voto di fiducia chiesto da Draghi, o altra soluzione parlamentare, a fare testo e a dare il via libera all’aumento del budget militare auspicando una politica di difesa su scala europea. Intanto, Giuseppe Conte vede legittimata la sua leadership su ciò che rimane dei 5 Stelle, con il 94% nel referendum interno e con il suo alzare la voce cercando di recuperare la radicalità delle origini. Come risponderà il ministro Lugi Di Maio, che su guerra e armi marcia come un soldatino, è un dettaglio che interessa solo chi è ancora grillino.
Il problema non è perciò la precarietà degli equilibri di governo – destinati a restare tali fino alle elezioni politiche del 2023 –, quanto piuttosto l’atteggiamento politico nei confronti della guerra Russia-Ucraina. Forse l’Italia tornerà in gioco se si dovesse scegliere la linea della soluzione di Paesi garanti della neutralità e della sicurezza dell’Ucraina (il negoziato in corso in Turchia); non c’è dubbio, però, che finora il governo Draghi (come il Pd) non abbia brillato per iniziativa in campo europeo. Il presidente Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno avuto maggiore protagonismo e visibilità, provando a convincere Putin alla trattativa e parlando con le parti in conflitto (grazie al ruolo avuto da Macron nell’ultimo mese, quasi sicuramente sarà lui l’inquilino riconfermato all’Eliseo nelle prossime elezioni di aprile in Francia).
Legione straniera? No grazie
Balzato di nuovo all’onore delle cronache durante una conferenza stampa del ministro degli Esteri russo, il battaglione Azov – così chiamato perché il suo nucleo originario ha sede sul Mare di Azov, cioè in quella parte del Mar Nero su cui si affaccia Mariupol’ – è né più né meno che un gruppo armato ucraino neonazista (com’è chiaro anche dalle sue insegne). Il suo momento magico è stato la contesa intorno al Donbass a partire dal 2014 – una questione di confine simile a quella dell’Alto Adige o Sud Tirolo, risolvibile pacificamente, ma che, con grande irresponsabilità della Russia, è stata esasperata fino ad arrivare al punto in cui siamo. Wagner è invece il nome di un’organizzazione di mercenari neonazisti (vedi qui), alle dirette dipendenze di Mosca, che non si sa ancora bene se siano impiegati o no nell’invasione dell’Ucraina, ma che di sicuro in passato sono intervenuti nella zona.
Ora, immaginiamo uno scontro frontale tra loro… Credete che deporrebbero le armi e si abbraccerebbero nella comune celebrazione della memoria di Hitler? Nient’affatto, se le suonerebbero di santa ragione. E questo perché non si tratta di autentici neonazisti, al di là dei richiami storici, ma di nazionalisti estremi, impegnati in una guerra che vede schierati i nazionalismi di ambedue le parti (il che non significa che non ci sia una differenza tra gli aggrediti e gli aggressori, oggi evidente). L’hitlerismo era altra cosa: era il progetto di un dominio completo sull’Europa, tendenzialmente sul mondo, che metteva da parte i vecchi (in quel momento potevano sembrare tali) particolarismi nazionalistici, nella costruzione di un impero governato da tanti Quisling, tra cui lo stesso Mussolini.
Che cosa fare per l’Ucraina
Certamente bisogna accogliere i profughi nei Paesi europei, è la cosa più importante in questo momento. È stato giusto porre dure sanzioni economiche nei confronti di Mosca, perfino la Svizzera stavolta non si è sottratta. Neanche si può sfuggire al dovere di inviare armi a Kiev, come l’Occidente sta facendo, affinché resista il più possibile. Sebbene si tratti di una decisione che mette in difficoltà la nostra coscienza pacifista, rafforzare la difesa dell’Ucraina è l’unico modo per cercare di giungere a una ripresa della via diplomatica. Ciò che non può essere messo in calendario, invece, è un ingresso del Paese ipso facto nell’Unione europea. Uno Stato in una situazione bellica non può essere ammesso, sia pure soltanto per una dimostrazione di solidarietà. Non si può prevedere come la guerra evolverà, se ci sarà, a un certo punto, un governo ucraino in esilio. Quale sarebbe allora l’entità statale da accogliere nell’Unione? E soprattutto, dal punto di vista della prudenza politica, se si vuole favorire un negoziato per arrivare, a breve, a un “cessate il fuoco”, la scelta europea dell’Ucraina (in linea generale del tutto comprensibile e legittima) sarebbe ora d’intralcio.
Una prospettiva di pace non potrà che passare per un accordo che comprenda la Crimea, i territori del Donbass, e una moratoria per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea e nella Nato. Peraltro questa seconda opzione non era affatto imminente, anzi suscitava perplessità nella stessa Nato. Con il senno del poi, si è rivelato piuttosto un pretesto per l’invasione da parte di Putin. Anche perché ci sono già Paesi limitrofi della Russia, come le Repubbliche baltiche, che fanno parte dell’Alleanza atlantica, e se questa volesse dirigere dei missili contro Mosca ciò sarebbe possibile già adesso.