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Birmania, una vita dopo il golpe

Dopo due anni dalla presa del potere, la giunta militare non ha ancora il pieno controllo del Paese. Sarebbe essenziale il sostegno della comunità internazionale alle forze dell’opposizione

30 Gennaio 2023 Cecilia Brighi*  655

Era l’alba del primo febbraio 2021 quando migliaia di militari birmani circondarono silenziosamente i palazzi del potere, impedendo l’insediamento del nuovo parlamento democraticamente eletto e arrestando il presidente della Repubblica, U Win Myint, la Consigliera di Stato, Aung San Suu Kyi, tutti i ministri del governo uscente, molti parlamentari, e i ministri dei governi delle Regioni e degli Stati, avocando a sé il controllo della magistratura e di tutte le strutture amministrative nazionali e locali. I generali avevano utilizzato la Costituzione, che prevede la superiorità dei militari rispetto a qualsiasi governo civile – consentendo di dichiarare lo stato di emergenza, di assumere il controllo di tutti e tre i rami del governo, di spodestare a piacimento il presidente della Repubblica – e, tuttavia, anche la loro incriminabilità per la violazione dei diritti umani.

Il colpo di Stato, del resto, non era arrivato come un fulmine a ciel sereno. Anzi. Era stato preannunciato dal portavoce dell’esercito, e smentito poi dal comandante in capo delle forze armate. Ma nessuno aveva seriamente pensato che le minacce iniziali fossero frutto di un mero travisamento. Tre giorni prima del colpo di Stato, la Confederazione sindacale birmana ne aveva denunciato il tentativo, mobilitando i lavoratori e le lavoratrici. Il primo febbraio, gli abitanti dell’intero Paese uscirono sui balconi e per le strade, sbattendo pentole e altri attrezzi: nessuno voleva, e tuttora vorrebbe, rinunciare a una libertà assaporata dopo cinquant’anni anni di dittatura.

Il piano dei golpisti? Sciogliere i lacci che i cinque anni di governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld), pur con tutti i limiti e le contraddizioni, aveva messo intorno alla fame infinita di potere e di profitto da parte dei militari, ottenuto grazie alle potenti imprese da essi controllate. Nel corso degli ultimi cinque anni, prima del golpe, erano state approvate moltissime leggi che miravano ad adeguare il Paese agli standard internazionali di trasparenza e anticorruzione, e di rispetto delle norme ambientali e sociali. Un inciampo per l’attuazione dei grandi progetti e opere infrastrutturali che la Cina intende sviluppare in Birmania per garantire uno sbocco al mare dalla provincia interna dello Yunnan.  Una “via della seta” piena di grandi occasioni di guadagno per le tasche dei militari e dei loro amici. Con l’adesione all’Eiti (Estractive Industries Transparency Initiative), il governo dell’Nld stava manomettendo le casseforti dei militari. E il grande gioco delle armi, che lega strettamente l’esercito birmano sia alla Cina sia alla Russia, partner privilegiati e paladini dei militari birmani anche al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sebbene sia un segreto di Pulcinella che la Cina, con una mano, fornisce armi alla giunta militare e, con l’altra, foraggia le organizzazioni etniche armate.

I cinque anni del governo di Aung San Suu Kyi (primo aprile 2016 – primo febbraio 2021) avevano segnato una serie di risultati positivi sul piano socioeconomico; ma avevano contemporaneamente messo in evidenza i limiti di una difficile e mal sopportata convivenza tra il potere militare e quello civile. Lo spostamento del controllo dell’intera pubblica amministrazione dalle mani dei militari a quelle del gabinetto della leader birmana aveva prodotto la perdita del controllo, da parte dei militari, sui direttori generali: dai ministeri fino agli amministratori dell’ultima borgata. Una decisione, infatti, subito abrogata dopo il colpo di Stato. Con il governo di Aung San Suu Kyi, grandi investimenti infrastrutturali avevano cambiato, sebbene ancora solo parzialmente, le condizioni di vita in centinaia di villaggi e città. Il livello di elettrificazione era passato, in quattro anni, dal 33% al 50%. Dove prima, a collegare i villaggi, c’erano solo strade di terra battuta, il governo aveva costruito strade asfaltate e ponti, così da permettere il transito anche durante i peggiori monsoni. Il settore scuola aveva visto un aumento vertiginoso delle risorse investite: da 251 milioni di dollari nel 2102 a 1.2 miliardi nel 2016. Lo stesso si può dire del settore sanitario, passato da 20.2 milioni di dollari nel 2012 a 840 milioni nel 2017-18.

Ma rimaneva una contraddizione di fondo: sia nel rapporto del governo con i militari sia in quello con i rappresentanti degli Stati etnici, che da sempre chiedevano autonomia e la fine dell’approccio predatorio alle enormi risorse naturali spolpate dalle potenti imprese sotto controllo militare, e si andava verificando l’impossibilità di un accordo nei dialoghi tripartiti per la pace. La grande contraddizione, utilizzata dai militari a loro vantaggio, era esplosa con la pulizia etnica nei confronti dei Rohingya, che l’Nld aveva tentato di minimizzare anche presso la Corte internazionale di giustizia, in parte per cercare di salvare il processo di democratizzazione a rischio, in parte per una sottovalutazione della strategia dei militari nei confronti dei gruppi etnici. In fondo, quell’esercito era stato fondato dal padre di Suu Kyi, il generale Aung San, considerato il padre della patria.

Altro nodo irrisolto, quello riguardante la riforma della Costituzione imposta dai militari, che non hanno mai avuto alcuna intenzione di ridimensionare il proprio ruolo politico e soprattutto economico. Secondo la Costituzione, a loro è attribuito il 25 % dei seggi sia nel parlamento nazionale sia nei parlamenti locali. I militari sono quindi collocati al di sopra del controllo civile, detenendo, inoltre, la maggior parte dei settori produttivi: teak, gas, petrolio, minerali, giada, rubini, oro, rame, terre rare, delle quali la Birmania è terzo produttore mondiale.

Oggi, a due anni dal colpo di Stato, il quadro continua a essere drammatico;  ma la giunta ha sostanzialmente fallito il proprio obiettivo. La popolazione seguita a opporsi, anche di fronte alla legge marziale e allo stato di emergenza, ai posti di blocco, alle perquisizioni, agli arresti, agli stupri, agli oltre quarantamila edifici distrutti dai bombardamenti o dati alle fiamme. L’opposizione democratica è frutto della proliferazione delle organizzazioni socialie delle donne, nate come funghi negli ultimi dieci anni. I sindacati, proibiti fino al 2012, prima del golpe avevano una struttura non grande ma robusta, sperimentata durante la precedente dittatura, con oltre centomila iscritti, non solo nelle zone industriali, ma anche nei servizi e nell’agricoltura, nel settore pubblico e nei trasporti. Così, subito dopo il colpo di Stato, la leadership sindacale  ha potuto bloccare per mesi il Paese, con scioperi generali che hanno visto scendere in piazza tutti i settori produttivi, medici, personale sanitario, professori universitari e insegnanti, ferrovieri, operaie delle zone industriali, che lavorano per i grandi brand della moda internazionale, studenti, donne, che insieme alle organizzazioni della “Generazione Z”, sono a tutt’oggi, la spina dorsale della opposizione non violenta, organizzata nel Civil Disobedience Movement.

Tutta la popolazione birmana – sia la parte che alle ultime elezioni aveva votato per l’Nld, sia quella che aveva scelto altri partiti, anche etnici – non vuole rassegnarsi a vivere sotto il dominio militare. L’alleanza tra e con le etnie, e il superamento delle visioni stereotipate che relegavano le donne ai margini dell’azione politica, sono i nuovi elementi che rendono le cose profondamente diverse dalle precedenti rivoluzioni fallite, come la “rivoluzione zafferano” del 2007, che pure aveva prodotto un cambiamento culturale profondo.

Il governo di unità nazionale (Nug), nato nell’aprile 2021 come risposta al colpo di Stato, e composto da membri del parlamento, delle organizzazioni etniche armate, insieme con le organizzazioni sindacali e della società civile, pur tra mille divisioni, ha assunto decisioni storiche, tra cui il riconoscimento della Corte penale internazionale. È derivata da qui la richiesta di procedere contro i militari per i crimini di guerra e genocidio, commessi nei confronti dei Rohingya e delle altre minoranze etniche. Il governo ha anche cancellato la Costituzione del 2008, e sta lavorando a una Costituzione democratica e federale. Ha abrogato la legge sulla cittadinanza, alla base della discriminazione dei Rohingya, e si è impegnato per una legge basata sullo ius soli. Il Nug, pur tra mille difficoltà, restrizioni, contrapposizioni interne, sta cercando di fornire servizi sanitari e aiuti umanitari alle popolazioni e alle migliaia di nuovi rifugiati interni, che non riescono a essere aiutati dalle agenzie Onu. Le Forze di difesa popolare stanno crescendo in esperienza e professionalità, grazie al training degli eserciti etnici. La giunta ha il controllo solo di una parte del Paese, e anche lì dove ancora ha il controllo amministrativo, la resistenza armata sta mettendo in difficoltà l’esercito golpista.

Ciò nonostante, il Paese rimane fuori dai radar internazionali e dei media. La comunità internazionale ha appaltato la soluzione del problema all’Asean, organizzazione strutturalmente debole e divisa, formata da Paesi come Thailandia, Cambogia, Laos, compagni di merende della giunta. Dopo ben 74 anni, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione sulla Birmania, ma ha dovuto annacquarne i contenuti, tanto da renderla poco efficace. L’Unione europea ha approvato molte importanti misure restrittive, ma con il contagocce, e ancora oggi non riconosce il governo di unità nazionale, per timore che i propri ambasciatori possano essere cacciati dal Paese, sebbene non possano avere ormai alcun peso o ruolo.

Negli ultimi giorni, hanno fatto scalpore i risultati del rapporto Unodc dell’Onu, che ha denunciato l’aumento della produzione di papavero da oppio del 33%, e un aumento dell’88% nella potenziale resa di oppio nel 2022. A due anni dal colpo di Stato, le indagini indipendenti hanno mostrato le connivenze di imprese e Paesi che continuano a fornire armamenti o tecnologie alla giunta militare; del resto, nei primi mesi dopo il golpe, munizioni di fabbricazione italo-francese erano state utilizzate per reprimere le manifestazioni dell’opposizione, e aerei di produzione italo-francese erano stati presentati dal capo della giunta, Min Aung Hlaing, in occasione del settantaquattresimo anniversario dell’Aeronautica militare del Myanmar, nel dicembre 2021. Ancora non si riesce a capire come sia stato possibile che munizioni e aerei siano potuti finire in mano ai militari birmani. Un altro aspetto preoccupante riguarda il silenzio sul carattere degli investimenti dell’azienda siderurgica italiana Danieli, rimasta nel Paese anche durante la precedente dittatura, nonostante le sanzioni da parte dell’Unione europea. Dopo il colpo di Stato, il 24 settembre 2021, la Danieli otteneva nuovamente, dal Directorate of Investments and Company Administration, sotto il diretto controllo della giunta militare, l’autorizzazione per operare in Birmania, in un settore sanzionato dalle misure restrittive europee.

Cosa fare dopo due anni? “Italia-Birmania. Insieme”, che da anni sostiene le organizzazioni democratiche, e oggi il sindacato clandestino, in un appello lanciato su Change, sottolinea come sia fondamentale che l’Italia e l’Unione europea superino le dichiarazioni puramente retoriche e agiscano rapidamente, sostenendo la formazione di una coalizione con altri governi democratici, per un piano di azione urgente, un embargo sulle armi, sulle terre rare prodotte in Birmania e sul carburante usato per gli attacchi militari nei confronti di migliaia di villaggi. Soprattutto, “Italia-Birmania. Insieme” chiede all’Italia e all’Unione europea di riconoscere il governo di unità nazionale e di decidere – come ha fatto la legge approvata di recente negli Stati Uniti – a favore di un sostegno finanziario e tecnico alle organizzazioni della società civile che lottano per la democrazia, garantendo un supporto sia al governo di unità nazionale sia alle Forze popolari di difesa e alle forze armate etniche; e di rifiutare la decisione della giunta militare di indire elezioni politiche per consolidare il potere. Se si vuole realmente che vinca la democrazia, si deve sostenere – non a parole ma con i fatti – chi in quel Paese (così come altrove) resiste alla dittatura, mettendo a rischio la propria libertà e la propria vita.

*Segretaria generale “Italia-Birmania. Insieme”

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